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theunconditional

I kompagni di Chicago: su Tangentopoli e Prima Repubblica

di Antonio Di Siena

Oggi un ignoto commentatore mi ha rimproverato di aver fatto un elogio della prima repubblica perché – secondo lui – quella era una classe politica corrottissima che sosteneva il proprio consenso facendo debito pubblico a iosa. E che adesso la situazione sia decisamente migliore anche perché ci sta l’Europa. Ok. Allora provo a spiegarmi un pochino meglio.

Che molti meccanismi della prima repubblica fossero marci fino al midollo è cosa cristallina come l’acqua delle Bermude. E che i carrozzoni creati in quel periodo negli enti pubblici fossero un problema gigantesco che tutt’oggi paghiamo è cosa altrettanto nota e pacifica. Ma, vedete, il punto non è questo. Perché io non sto santificando quel modello. Mi limito a osservare che, dato che TUTTI i sistemi capitalisti sono marci (e la rivoluzione la stiamo ancora aspettando), sarebbe cosa intelligente soffermarsi a valutare quale fra quelli sia meno marcio e soprattutto più funzionale al miglioramento della condizione sociale generale. Il problema è che la propaganda montata ad arte su mani pulite ha inquinato a tal punto l’acqua dei pozzi che chi se l’è bevuta è rimasto intossicato a vita. Mi spiego.

Dire che i partiti della prima repubblica finanziassero il proprio consenso col debito è certamente corretto. Molto meno è sostenere che quel debito non servisse anche a costruire strade, scuole, ospedali, poli industriali e infrastrutture varie (certo qualcuno era inutile, ma molti altri no, a meno che non si voglia dire che fare gli ospedali in Calabria è uno spreco). Prova ne è che in quegli anni la disoccupazione era molto più bassa di oggi, il paese primeggiava in ricerca tecnologica e le infrastrutture si costruivano per davvero. Tutta l’Italia moderna è stata tirata su fra gli anni ‘50 e i ‘70 (insieme a quello che avevano fatto prima…) e sfido chiunque a dimostrare il contrario. Certo con molte zone d’ombra e ruberie ma guardate cosa accade oggi. Campiamo sulla rendita di quegli anni senza avere soldi per manutenere quei beni che, nel migliore dei casi, vengono svenduti ai privati e nel peggiore crollano. E quel poco che riusciamo a fare lo facciamo prendendo denaro a usura da Bruxelles e imponendo una tassazione altissima, raschiando così il fondo del barile di un paese sempre più povero, disoccupato e che mai aveva visto il risparmio privato tanto eroso come nell’ultimo ventennio. Avevamo le autostrade pubbliche costruite con soldi nostri (e non aspettando iFondiEuropei prestati a strozzo), una compagnia aerea statale invidiata da mezzo mondo, l’Alfa Romeo, gioiellino dell’industria pubblica e tante altre cose. Per dirne una. Se Arafat voleva venire in Italia – e lo faceva volentieri perché era amico di Craxi e Andreotti e perché l’Italia aveva una vera politica estera e un vero ruolo nel Mediterraneo – ci veniva prendendo un volo Alitalia e, una volta atterrato, si spostava sul territorio a bordo di auto prodotte in Italia da Alfa Romeo scortato da gazzelle dell’Alfa… eccetera eccetera. Alimentando così un circolo economico virtuoso che ripagava l’investimento statale iniziale, trasformando in profitto i soldi pubblici spesi sul mercato interno. Così facendo siamo diventati la quarta potenza industriale del mondo e ne guadagnavano pure i privati dell’indotto, ad esempio la Magneti Marelli o la Olivetti, che potevano pagare di più gli operai i quali, con stipendi più alti, investivano una parte dei loro risparmi in buoni del tesoro dando solidità al debito pubblico (che è il risparmio dei cittadini). In altre parole dire che la prima repubblica faceva lievitare la spesa pubblica è un artificio funzionale a far passare il principio che il debito sia di per sé cattivo. Un concetto assolutamente falso. A meno che non si creda che il Congo, paese con un debito bassissimo, sia più solido del Giappone che è la nazione col debito più alto del mondo. Chiaro?

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Con tutti i caveat del caso, quindi, si può serenamente sostenere che durante la prima repubblica il benessere fosse più diffuso di oggi. Perché a quel tempo la tanto vituperata classe dirigente sapeva una cosa che pare essere scomparsa dalle nozioni di economia: lo Stato può (anzi deve) finanziare la Spesa pubblica stampando moneta. Perché all’epoca si sapeva capire ciò che è scritto (tutt’oggi) in ogni stramaledetto manuale universitario del globo terracqueo e cioè che quella con base monetaria è una legittima forma di finanziamento della spesa pubblica. Una nozione che è l’ABC della politica economica, una banalità come dire che la Terra è sferica e che i moderni terrapiattisti economici sembra abbiano rimosso. Rimozione figlia di uno stravolgimento tutto politico delle leggi economiche. Non solo perché battere moneta è la principale prerogativa di qualunque Stato sovrano dai tempi di Hammurabi. Ma soprattutto perché scegliere di finanziare la spesa pubblica con l’emissione di nuova moneta, oltre che una legittima opzione contemplata e accettata dalla scienza economica, è una decisione principalmente politica. Una scelta da sempre rivendicata durante la prima repubblica ma, con ogni evidenza, invisa ai santoni del libero mercato e ai loro inconsapevoli adepti. Ecco perché difendo un periodo storico in cui, fra l’altro, ai cittadini era ancora consentito decidere che tipo di politica economica applicare. Una robetta che avrebbe a che fare anche con la democrazia… ma vabbè non andiamo troppo per il sottile.

Affermare quindi che quelle politiche fossero sostanzialmente inutili o, peggio, che alimentassero il debito è semplicemente una panzana colossale. Come dovrebbero sapere pure i sassi, infatti, il debito italiano non inizia a crescere per caso, per le spese folli di una classe politica di incapaci. Ma perché il seme del mercato si era già insinuato nei palazzi. Prima l’adesione allo SME (il progenitore dell’euro) e poi il divorzio Tesoro-Bankitalia, provvedimento promosso a tradimento dal duo Ciampi Andreatta nel 1981, portano al raddoppio del debito in poco più dieci anni. Per arrivare alle più recenti e stratosferiche cifre dopo la ferale adesione alla moneta unica e ai dettami europei di contenimento della spesa. Tutte scelte figlie della prima repubblica per carità. Ma in un periodo in cui fra i partiti non c’era assolutamente unanimità di vedute e dissentire era ancora la norma (e pure parecchio diffusa).

Ragion per cui vorrei che fosse chiara una cosa. Io non sto mitizzando la Milano da bere e il discotecaro De Michelis. Non sto elevando Craxi a incomparabile statista solo perché oggi siamo circondanti da lillipuziani e umpalumpa. Commetterei un errore grossolano, anche perché quando Prodi cominciò la dismissione dell’IRI (con la privatizzazione di Alfa Romeo e la liquidazione di Italsider) dando avvio al colossale processo di svendita a prezzi stracciati del nostro patrimonio pubblico, al governo ci stava il PSI, partito che nello stesso periodo sostenne pure il taglio della scala mobile. E non sto nemmeno dicendo che si debba promuovere la politica di scavare buche per poi riempirle o stampare montagne di soldi da distribuire a caso agli angoli delle strade come fossero volantini della Coop. Parlo di investimenti in opere e servizi pubblici. Di ricostruire i ponti e le scuole che crollano e sotto le cui macerie ci restano persone. Morte. Di rilanciare l’industria e l’occupazione. Di arrestare l’emorragia di giovani emigrati. Di proteggere gli asset strategici dal saccheggio degli sciacalli della finanza internazionale. Di finanziare la ricerca, la farmaceutica, la sanità e pure gli ammortizzatori sociali, temi che durante la pandemia sono abilmente finiti sotto il tappeto mentre Regno Unito e Giappone inondavano di soldi le loro economie per impedirne il tracollo. Di perseguire l’interesse nazionale con provvedimenti urgenti per risollevare un Paese che sta come Lazzaro senza l’intervento di Gesù Cristo e che, durante la prima repubblica, erano la base di qualunque programma elettorale. Oggi invece sono tabù. Pericolose eresie da bollare come sovversive e fasciste.

Ecco a cosa è servita mani pulite. A etichettare come ladra e sprecona una classe politica sostenitrice di un sistema di economia mista – in cui lo Stato, la moneta e le politiche economiche giocavano un ruolo determinante – estromettendola dal governo del paese per sostituirla con un’altra totalmente asservita alle logiche del libero mercato. Inculcando nella testa della gente il concetto che quelle ricette fossero sbagliate e noi non fossimo più in grado di governarci da soli. E che l’unica soluzione erano le entità sovranazionali e il dogma del liberismo, una dottrina scientifica perfetta, infallibile e incontestabile.

Quindi va benissimo criticare la prima repubblica, sono il primo a farlo. Ma, per pietà, che lo si faccia con un briciolo di cognizione di causa. Diversamente – a gettare acriticamente merda su quella fase storica rivendicando il proprio passato da ex comunisti duri e puri – si finisce per aderire inconsapevolmente (?) alle tesi di Friedman e della scuola di Chicago, il gotha del pensiero liberista, auto convincendosi che “there is no alternative” come una Thatcher qualunque. E non serve a nulla continuare a professarsi, percepirsi intimamente ancora “de sinistra”. Perché a prendere per buone le implicazioni della narrazione su tangentopoli si finisce per diventare irrimediabilmente liberisti. Come sia stato possibile cancellare con tale noncuranza quella stagione, commettendo un così marchiano stravolgimento della realtà delle cose, resta davvero un mistero. Forse a qualcuno dev’essere caduto in testa un pezzo di muro di Berlino. Altrimenti non si spiega.

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