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lafionda

Una società al… “verde”

di Bruno Montanari

Il verde è anche una metafora. Significa innanzitutto libertà: correre in un prato verde è vivere la libertà. Uno dei colori della nostra bandiera è il verde; libertà, appunto. Ma significa anche altro: “restare al verde”, per esempio, significa non avere un soldo in tasca; e chissà perché? Forse perché senza un soldo in tasca non resta che correre in un prato… . Verde, anzi green (questa infernale anglomania!), è ora il colore che segna la speranza che la natura torni ad essere più mansueta con noi, se riusciamo a trattarla con maggiore rispetto: l’industria e l’economia “verde”

Il verde segna ormai anche la nostra vita quotidiana in tutti i suoi tratti particolari. E’ il colore attribuito alla certificazione vaccinale, che dovrebbe renderci liberi come il prato di cui sopra. Ma è così? Credo che in questo nostro contesto il verde diventi un colore ambiguo, che celi qualche tratto di disonestà simbolica.

Infatti.

In questi giorni, come è noto, è entrato in vigore l’obbligo di “certificato verde rafforzato” per accedere ai luoghi di lavoro, sia pubblici che privati. Tale obbligo fa seguito a quello già in vigore riguardante l’accesso a centri e luoghi commerciali in genere, ristoranti, bar e via discorrendo.

Sulla correttezza costituzionale di tali misure si è già ampiamente discusso e non intendo insistere. Voglio invece soffermarmi sulla “atmosfera sociale” che si è venuta formando a seguito della gestione governativa e mediatica della pandemia. Qui non si tratta di dividersi tra Vax e No Vax, ma occorrerebbe finalmente riuscire a guardare con occhio critico all’intero panorama.

In primo luogo: il certificato verde ed il suo controllo da parte del personale degli esercizi cui va esibito. Si è sminuita l’inquietudine che poteva suscitare la questione, paragonando il certificato verde ad una sorta di patente di circolazione analoga a quella che, senza alcuno scandalo, è obbligatoria per la guida dei diversi veicoli a motore. Come dire: così come è obbligatoria la patente per guidare un veicolo a motore, altrettanto obbligatorio è avere una sorta di patente per una consumazione al ristorante. Sbagliato, l’analogia non regge, se non ad una apparenza molto superficiale; tuttavia, l’analogia sembra funzionare a causa di una forma mentis generalizzata, plasmata dalla paura (tornerò poi su questo tema).

L’analogia non regge per due ragioni.

La prima. La patente di guida si fonda sulla necessità di abilitare una persona all’uso di un mezzo a lei estraneo e che necessita di competenze e abilità tecniche; il che non vale solo per i veicoli, ma anche per l’utilizzazione di altri strumenti o macchinari. Qui il centro della questione è rappresentato dal concetto di uso di uno strumento che richieda una specifica abilità tecnica, da verificare anche in funzione di garanzia per potenziali danni sia all’utente sia ad altri.

Applicare la medesima ratio al “certificato verde” è del tutto improprio, poiché qui non si tratta dell’uso di uno strumento estraneo alla persona per verificare l’abilità di quest’ultima, ma riguarda l’ “uso” (se vogliamo mantenere il termine per ragioni di superficiale analogia) del proprio corpo. Il che apre questioni di ordine etico di grandezza ben superiore alla certificazione, quali quelle, per esempio, che ruotano attorno agli attuali referendum. Certo, si può dire di rimessa, sdrammatizzando la questione: “non si può usare il proprio corpo per infettare gli altri”; argomento di “ordine pubblico”. Ma questo argomento è vero? Data l’incertezza che permane circa l’efficacia terapeutica dei vaccini, che ha spinto di recente un virologo mediaticamente assai noto a dire che solo colui che si è vaccinato e poi ha contratto la malattia può considerarsi davvero immune, ne segue che la scienza si sta muovendo in un ambiente ancora sperimentale, e il riconoscerlo appartiene all’iter normale di una qualsiasi ricerca seria. Proprio per questo, però, bisogna essere coerenti e limitarsi a dire: “meglio vaccinarsi che non…”, “vaccinarsi è opportuno, perché riduce la gravità della patologia”, ma da qui a farne oggetto di un provvedimento di “ordine pubblico” e con tutte le conseguenze sanzionatorie correlate, ne corre sul piano giuridico-ordinamentale. L’unico contro-argomento potrebbe essere il riferimento al cosiddetto “principio di precauzione”, ma il dubbio sulla sua correttezza può specificarsi così: essendo ancora un farmaco non stabilizzato, nei confronti di chi dovrebbe esercitarsi la precauzione?

Fin qui l’aspetto statico: l’obbligo della certificazione; vengo ora a quello dinamico: il potere-dovere di controllo. Il nesso “potere-dovere” è tipico del concetto di “funzione pubblica”, nel senso di attività di competenza di un soggetto investito dall’ordinamento di una funzione pubblica. Il che significa che è stato “officiato”, secondo le forme e le procedure legislativamente previste. Qui allora bisogna distinguere tra i vari soggetti investiti dalla funzione di controllo. Un soggetto responsabile di un servizio pubblico, come per esempio il Capotreno o il conducente di un mezzo pubblico, può ritenersi che eserciti anche una funzione pubblica (che infatti gli è riconosciuta) data la destinazione del servizio; ma questa investitura non vale di certo per un qualsiasi titolare di esercizio commerciale o di attività privata economica e non, il quale, pur rimanendo un privato cittadino, è chiamato a svolgere una funzione a lui non ascrivibile. Anche in questo caso, l’analogia con il controllo della patente di guida non funziona. In primo luogo, perché non accade che ad ogni semaforo, per il solo fatto che si attraversi l’incrocio, vi sia un pubblico ufficiale che chieda la verifica della patente, ma questo avviene in quelle specifiche circostanze in cui occorra procedere ad una verifica dei documenti di guida. In secondo luogo, l’esercizio di tale controllo è eseguito non da un qualsiasi privato cittadino, ma da un personale dotato della congrua investitura funzionale.

Trascurare questa differenza, anche se viene sottovalutata dai più o comunque sfugge, è invece gravissimo, perché significa attribuire ad ogni cittadino, pur nella sua qualità di “privato”, un compito pubblico di tutela di uno specifico ordine sociale, quale è quello dettato dalla certificazione verde. In altre parole, istituendo un potere di controllo di un cittadino su di un suo pari, significa violare il principio fondamentale proprio di una liberal-democrazia: quello secondo il quale tutti i cittadini sono, di principio, uguali per l’ordinamento. Se esiste, infatti, un semplice cittadino controllore, vi sarà, di conseguenza, un semplice cittadino controllato e, dunque, un soggetto dominante ed uno sottoposto. Si introduce così la possibilità che, di fatto, i cittadini non siano tutti uguali rispetto all’ordinamento, ma possano dividersi in due categorie: i controllori e i controllati. Il contesto si aggrava se si considera che l’attribuzione del potere di controllo, nonostante sia indebita, viene corroborata da una minaccia di sanzione se non venisse esercitata quando dovuto. Nella attuale situazione, al di là della contingenza, è in gioco un meccanismo logico: precetto – esecuzione dovuta – sanzione per la mancata esecuzione, che ha avuto nella storia esempi che dovrebbero essere noti a tutti. E spesso la contingenza ha reso evanescente, anche nella storia, il meccanismo logico.

Fin qui le anomalie ordinamentali e sociali del fenomeno. Ora qualche interrogativo.

Il primo. Quanti si rendono conto della gravità di tali anomalie? quanti considerano il farle rilevare pure chiacchere, in un momento in cui, invece, occorre guardare al sodo! ?

Il secondo. Non è forse psicologicamente gratificante, per alcuni individui, la possibilità di esercitare un qualche potere sull’altro, magari anche culturalmente o economicamente superiore? “Finalmente conto anch’io!”; per altro verso, abitua il cittadino all’essere controllato e per il suo stesso bene. Anche in questo caso, bisogna conoscere un po’ di storia; il che non va confuso con una mera lettura libresca o con un documentario o un film. La storia è vita materiale, vissuta sulla propria pelle da altri in altri luoghi, in altri tempi e momenti della loro vita. Allora ci si accorgerebbe che quello descritto poco sopra è un fenomeno psicologico di massa che ha innervato storicamente le strutture operative dei governi autoritari.

Il terzo e più inquietante. Coloro che governano istituendo pratiche tanto socialmente debilitanti, suscettibili di danni alla persona sotto forma di disturbo mentale, sono consapevoli dei loro effetti? Qui la risposta si fa drammatica. Se non lo fossero, la loro sarebbe una ignoranza colpevole e quindi il loro operare sarebbe di natura solo “colposa”. Si può tuttavia rilevare che sono stati forniti molti avvertimenti circa la quantità di disturbi mentali che la gestione pandemica ha nel tempo provocato. Averli ignorati, nonostante fossero conosciuti, come dimostra l’aver stanziato alcuni milioni per il soccorso psicologico, fa sì che il loro operare sarebbe configurabile come“colpa grave”. Ed il peccato più grave è quello di non aver reso la società più vigile e responsabile in un frangente così drammatico, quale la malattia avrebbe richiesto, ma di averla addomesticata all’obbedienza passiva, attraverso il ricatto della paura, che toglie, come è noto a chi si occupa della mente umana, qualsiasi indipendenza e lucidità della ragione. Una tale trascuratezza suscita il sospetto che si sia voluto sperimentare quella “grande re-inizializzazione” dell’umano occasionata dal COVID – 19, così chiaramente descritta nel testo ginevrino (2020) del fondatore e presidente del Foro Economico Mondiale, Klaus Schwab. In tal caso, la responsabilità della gestione politica andrebbe ben oltre l’ipotesi di “colpa grave”.

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