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La Russia verso l’autarchia

di Federico Dezzani

Autarchia 2.0: petrolio, acciaio e Huawei

Sull’onda della “operazione speciale” in Ucraina, l’Occidente ha adottato durissime sanzioni di natura finanziaria contro Mosca: nelle prossime ore o giorni, questi provvedimento saranno probabilmente coronati dall’arma assoluta: l’embargo sul petrolio e sul gas. La globalizzazione post-1991, già entrata in affanno col Covid, collasserà definitivamente: al suo posto, risorgeranno le grandi economie continentali ed autarchiche. La Russia è di per sé autosufficiente ed è capace di soddisfare qualsiasi bisogno grazie alla Cina: nella lotta tra i blocchi, rischiano di andare in frantumi le medie potenze esportatrici come Italia e Germania.

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Non è certo casuale se, negli ultimi anni, il mito di Stalin aveva avuto una seconda giovinezza in Russia: la figura dello zar rosso bene s’addiceva ai tempi che sarebbero dovuti venire e puntualmente sono venuti. Fautore del “socialismo in un solo Paese”, Stalin è infatti lo statista che, sin dal finire degli anni ‘20, aveva impostato l’economia russa su basi autarchiche costruendo, pur tra mille sacrifici ed errori, quel sistema bellico-industriale che avrebbe consentito all’URSS di emergere vittoriosa dalla guerra.

Il termine “autarchia” nel grande pubblico italiano è collegato al massimo a vaghi ricordi della “battaglia del grano” per l’autosufficienza alimentare o dei “surrogati” per liberarsi dalla catene delle nazioni plutocratiche: chi, come noi, avesse però condotto uno studio geopolitico su più secoli, sapeva che il concetto di “autarchia” avrebbe fatto nuovamente la sua irruzione nella storia, seppellendo definitivamente l’effimera era (che si credeva eterna, come ogni era) dei voli Easyjet e Ryanair. L’era in cui si era concepita la bambinesca “dottrina McDonald’s”, che escludeva la possibilità di un conflitto militare tra due nazioni che ospitavano la catena di ristoranti fast-food.

Sull’onda dell’intervento militare russo in Ucraina, l’Occidente ha imposto alla Russia durissime sanzioni che, come abbiamo già sottolineato, costituivano il principale obiettivo delle provocazioni angloamericane: Washington e Londra non hanno mai avuto a cuore le sorti dell’Ucraina che, come una semplice pedina, è stata “sacrificata” per scavare un vallo tra Russia ed Occidente. Il presidente ucraino Zelensky pecca di ingenuità quando, piagnucolando in teleconferenza davanti al Congresso americano, chiede che gli siano inviati aerei per fronteggiare gli invasori russi o sia istituita una “no-fly zone” nei cieli ucraini. Inghilterra e USA non forniranno mai i mezzi richiesti, né tantomeno le loro aviazioni, perché un conflitto militare con la Russia è al momento escluso: il loro unico obiettivo è valutare nel breve e medio periodo l’effetto delle sanzioni, nella speranza che queste producano un “cambio di regime” a Mosca. Defenestrato Putin e/o gettata la Russia nel caos, a quel punto il confronto con la Cina sarebbe molto più agevole.

In che cosa consistono, dunque, questa sanzioni? Alcune sono misure adottate contro singoli esponenti russi, i cosiddetti “oligarchi”, cui sono stati sequestrati i beni all’estero. Poi c’è il solito divieto di esportazione di tecnologia, nel settore informatica, aeronautica e telecomunicazioni. Di maggiore impatto è la decisione di escludere molte banche russe dal sistema internazionale del pagamenti SWIFT, con sede in Belgio, e di isolare la Banca Centrale Russa, impedendole di svolgere operazioni con le omologhe occidentali tramite la BIS. L’ultima sanzione, spacciata per “l’arma definitiva” sarà probabilmente nei prossimi giorni la decisione di mettere sotto embargo energetico la Russia, impedendole di esportare gas e petrolio, da cui proviene circa il 40% delle entrate fiscali russe. Il tutto avviene mentre le grandi multinazionali occidentali, giorno dopo giorno, abbandonano il mercato russo: Mastecard, Visa, Ikea, Google, Apple, Facebook, etc.

Prossimo collasso dell’economia russa, come gridano i media? Complotto degli oligarchi per liquidare Putin, come sogna la stampa occidentale? Golpe militare per ritirarsi subito dall’Ucraina, come afferma la propaganda NATO? Molto, molto difficile.

Si parta dalla considerazione che la Russia è stata già messa in ginocchio finanziariamente nel 1998, quando fu portata alla bancarotta coi soliti prestiti del Fondo Monetario Internazionale e sottoposta a fortissime spinte centrifughe per smembrarla (Cecenia, ma anche separatismi nella Siberia). L’epoca di Vladimir Putin, iniziata nel 2000, è stata quindi impostata all’insegna di un’indipendenza finanziaria (resa possibile dai proventi delle materie prime), premessa di qualsiasi politica estera indipendente. Se la Russia si fosse sentita sufficientemente forte in termini finanziari, quasi certamente “l’operazione speciale” in Ucraina sarebbe stata condotta, con costi militari e umani molto inferiori, nel 2014, dopo la rivoluzione colorata che spodestò Yanucovich: Mosca, invece, ha preferito attendere otto anni per intervenire, otto anni in cui ha costruito una “corazza” finanziaria, fatta di modestissima esposizione sui mercati dei capitali stranieri e di ingenti riserve di valuta, tale da renderle sostenibile l’urto contro le sanzioni economiche dell’Occidente. Sedendo su ampie riserve di valuta ed oro, con cui acquistare prodotti all’estero, la Russia non ha alcun esigenza di indebitarsi all’estero: istituendo un rigido controllo dei capitali e, sacrificando in parte il tenore di vita della popolazione, Mosca può tranquillamente passare al classico “circuito monetario”, lo stesso adottato dall’Italia negli anni ‘30. Diversi segnali, però, indicano che la Russia non intenda dirigersi  verso un’autarchia finanziaria integrale, bensì verso un’autarchia finanziaria allargata alla Cina: è di queste ore, infatti, la notizia di una possibile collaborazione le banche russe e China UnionPay, fornitore cinese di carte di credito, prodromo di una probabile collaborazione finanziaria di ampio respiro, mirante anche alla creazione di un sistema bancario alternativo allo SWIFT e alla Bank for International Settlements, la “banca delle banche centrali” con sede a Basilea.

Fin qui l’aspetto finanziario. L’aspetto economico è, per certi versi, ancora più semplice. Si cominci col dire che la Russia, comprendendo circa un terzo delle terre emerse, è autarchica per la maggior parte della materie prime. Il tallone d’Achille della Russia sovietica era l’agricoltura ma, liberatasi dal fardello ideologico e dall’idea della collettivizzazione della terra, Mosca ha ora un’industria primaria sana, che le consente di esportare derrate alimentari in abbondanza. Petrolio ed acciaio non mancano. L’industria bellica è una delle migliori al mondo; l’informatica (che già negli anni ‘80 era all’avanguardia) può reggere il passo con l’Occidente anche senza ricevere più componenti dall’esterno. L’industria leggera (dalla moda all’arredo) era e resta un punto debole dell’economia russa ma, a differenza di 80 anni fa, la fabbrica del mondo è ora la Cina, che può rifornire in abbondanza la Russia di qualsiasi bene di consumo. In cambio di cosa? Gas e petrolio ma, sopratutto, di un bene che non ha prezzo: la sicurezza strategica di avere le “spalle coperte” nella lotta contro le potenze marittime anglosassoni. Oltre la Cina, è poi lunga la lista dei Paesi che non intendono aderire alle sanzioni occidentali contro la Russia: in primis la Turchia, che è un’importante fornitrice di derrate agricole e minerali. Caffè e banane arriveranno da Brasile e India.

All’orizzonte si profila quindi uno scontro tra grandi blocchi continentali autarchici. Il primo è il blocco russo-cinese che gode di una lunghissima lista di vantaggi: il preponderante peso demografico, l’occupazione dell’Heartland da cui si domina l’intera Isola Mondo (la massa afro-euro-asiatica), la possibilità di muoversi per linee interne, respingendo l’offensiva degli anglosassoni ovunque attacchino. Il secondo blocco è quello marittimo-anglosassone, che ha un più elevato tenore di vita ma un minore peso demografico e, sopratutto, deve muoversi lungo linee eccentriche attorno all’Isola Mondo, linee che possono essere facilmente tagliate dalle forze aeronavali russe e cinesi. Il presunto vantaggio tecnologico di cui godono ancora gli anglosassoni deve, ormai, essere comprovato dai fatti. Tra i due blocchi è , riprendendo un termine introdotto nel 1915 dal geopolitico James Fairgrieve, la “Crush zone”, la zona d’attrito tra i colossi, coincidente grossomodo con la fascia costiera dell’Eurasia. È in questa regione che il collasso della globalizzazione ed il ritorno all’autarchia produrrà i primi, pesantissimi, effetti. Se, infatti, Russia, Cina e USA possono intraprendere senza troppi dolori il percorso verso l’autarchia, lo stesso non si può dire di quelle medio-potenze che hanno costruito la loro prosperità post-bellica sull’export e sul commercio mondiale. Italia e Germania rischiano di essere le prime vittime di questa nuove fase storica, a causa della rarefazione del commercio mondiale e dell’accesso, sempre più difficile e oneroso, alle materie prime, petrolio e gas in testa. Facile, dunque, che Germania e Italia diventino, sul fronte occidentale, i Paesi per eccellenza in cui si deciderà la Quarta Guerra Mondiale ibrida, o la Terza Guerra Mondiale calda.

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