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riformista

Le università bandiscono la Russia, una barbarie che ci ripiomba ai tempi di pietra e fionda

di Giovanni Guzzetta

E dunque ci risiamo. Non è bastata la drammatica e, per certi versi farsesca vicenda della soppressione del corso su Dostoevskij di un Università milanese. Soppressione poi revocata quando il danno era ormai fatto, tanto che il titolare del corso, lo scrittore Paolo Nori, si è rifiutato a quel punto di svolgerlo. Non è bastata la scelta, improvvida a mio parere, del festival di Cannes di rifiutare qualsiasi film russo nella prossima edizione. Non è bastata la lezione di civiltà offerta dal Cern di Ginevra, diretto dalla scienziata italiana Fabiola Giannotti, che, mentre ha sospeso la Russia, in quanto Stato, dal ruolo di osservatore, ha consentito però che gli scienziati russi continuassero a lavorare ai propri progetti accanto ai colleghi ucraini in quella istituzione.

No, non è bastato, se dobbiamo ancora oggi leggere la nota della nostra ministra dell’Università che ha chiesto agli Atenei «nel rispetto dell’autonomia accademica e di ricerca, a voler considerare la sospensione di ogni attività volta alla attivazione di nuovi programmi di doppio titolo o titolo congiunto» con istituzioni universitarie e culturali russe.

Tanto che “nell’esercizio della propria autonomia accademica” leggiamo che c’è già una solerte Università, la quale per non sbagliare ha deciso di interrompere «le collaborazioni in atto con studiosi legati a istituzioni russe» (Il Foglio di ieri). È proprio vero che la guerra ci fa ritornare a essere “ancora quello della pietra e della fionda” come scrisse Salvatore Quasimodo, in un regresso culturale e civile che fa a pugni con quell’idea di civiltà in nome della quale ci schieriamo giustamente dalla parte dell’Ucraina. È proprio vero, come disse Francesco Saverio Nitti in Assemblea costituente, che “in Italia il ridicolo è contagioso”. Purtroppo qui non si tratta solo di ridicolo, ma del conformismo da pensiero unico che ci fa dimenticare gli stessi valori in nome dei quali diciamo saremmo pronti a morire. Mentre in realtà a morire sono altri.

Ma come si fa a non avvedersi che squalificare la cultura, la ricerca, l’arte a livello di un qualsiasi prodotto da bandire come una qualsiasi “sanzione”, rappresenta la più grande manifestazione di debolezza politica e culturale? Come si fa a non vedere che tali scellerate scelte sono il più grande tradimento che potremmo fare alla nostra civiltà? Persino il diritto internazionale bellico prevede situazioni nelle quali il nemico dev’essere soccorso, pur nella cornice del conflitto. E noi che facciamo? Tagliamo quei pochi ponti che danno ancora senso ai valori dell’umanesimo, della libertà, della civiltà. Scelte di questo genere sono la prova più evidente di un ateismo umanistico, della perdita di fede nella forza della cultura e della scienza come strumenti di elevazione dell’uomo e come strumenti per consentire all’uomo di riconoscere l’altro come uomo, al di là della sua appartenenza, della sua nazionalità e della sua divisa. Questa idea di troncare le relazioni artistiche, scientifiche e di ricerca sono un’insulto alla cultura. Sono la premessa di atteggiamenti iconoclasti che alimentano il sonno della ragione. Il volto di un materialismo economico preoccupato solo di salvaguardare la sopravvivenza biologica e in cui la scienza si può colpire, ma il gas russo al quale ci siamo impiccati nel corso degli anni ovviamente no. Perché si sa, con la cultura mica si mangia.

Rompere quei ponti non può che accentuare le distanze e le polarizzazioni e potenziare le spinte a una degenerazione culturale, antiumanistica e antiscientifica, per cui io non giudico più il caso concreto, la situazione specifica, ma preliminarmente escludo qualsiasi possibilità di confronto, sostituisco il pregiudizio al giudizio. Al rasoio di Occam, che impone metodologicamente di distinguere, individuando eventualmente anche i casi in cui certi rapporti istituzionali o persino accademici potrebbero rappresentare la copertura di infiltrazioni o una minaccia per la sicurezza, contrapponiamo la falce cieca che non a caso nell’iconografia religiosa è il simbolo della morte.

Chissà cosa penserebbe di tutto ciò il grande cineasta ebreo Radu Mihăileanu ricordando che il suo film, Il Concerto, avrebbe potuto cadere sotto la mannaia delle sanzioni. Un film magico e commovente, che narra una storia sull’orchestra russa del teatro Bol’šoj che, ai tempi di Breznev, riesce con infinite peripezie a ottenere di esibirsi a Parigi.

Forse, di fronte alle sanzioni, Mihăileanu penserebbe che ha la fortuna di non essere russo. Ma certo non dimenticherebbe la frase pronunciata prima del concerto da Andreï Filipov (il direttore caduto in disgrazia per l’opposizione al regime): «L’orchestra è un mondo. Ognuno contribuisce con il proprio strumento, con il proprio talento. Per il tempo di un concerto siamo tutti uniti, e suoniamo insieme, nella speranza di arrivare a un suono magico: l’armonia. Questo è il vero comunismo. Per il tempo di un concerto». E sì, è proprio vero che “sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”. Con buona pace della retorica politicamente corretta che esibisce snobisticamente e burocraticamente la nostra presunta superiorità. E che non ci farà mancare, ne sono certo, qualche alzata di sopracciglio anche di fronte a queste riflessioni, evidente e pericolosa espressione di cripto-putinismo.

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