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L’economia di guerra

di Federico Dezzani

Commentatori ed analisti occidentali insistono sull’imminente ritorno della “stagflazione”, il periodo di alta inflazione e stagnazione economica che aveva contraddistinto le economie avanzate negli anni ‘70. In realtà, l’Occidente, o perlomeno l’Europa occidentale, si dirige verso un periodo di recessione ed inflazione tipico dei periodo di guerra, causato dalla distruzione dell’offerta e dall’impennata dei prezzi dei beni. Il ruolo delle materie prime ed il ritorno all’autarchia.

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“Receflazione” bellica

Nel 1937, in un clima internazionale già fortemente deteriorato, usciva “L’economia della guerra totale” dove l’autore, l’economista austriaco Stefan Possony, cercava, tra le altre cose, di rispondere all’interrogativo se durante la guerra la produzione salisse, trainata dalla spesa militare, o scendesse, a causa delle perturbazioni del sistema economico e delle distruzioni: in base all’esperienza europea della Prima Guerra Mondiale, Possony rispondeva che il PIL sarebbe sicuramente sceso.

I fatti della Seconda Guerra Mondiale avrebbero confermato l’ipotesi di Possony: solo un grande Paese, gli Stati Uniti che godevano e godono tuttora di una posizione di insularità rispetto all’Eurasia, avrebbero visto esplodere la propria produzione industriale e ricchezza, mentre Giappone, Cina, URSS, Germania, Italia e Francia avrebbero sperimentato una netta contrazione della ricchezza accompagnata da un brusco rialzo dei prezzi. L’Italia, in particolare, sarebbe piombata nel disordine economico-finanziario nel 1943 quando, il collasso del regime fascista accompagnato dall’introduzione delle criminali AM-lire, avrebbe disarticolato il rigido sistema di razionamento e dei controlli dei prezzi proprio dei “circuiti monetari”.

Nel marzo 2022, con la prepotente irruzione della guerra in Europa Occidentale, tutto lascia pensare che l’Occidente, o quantomeno l’Europa occidentale, si diriga verso uno scenario simile a quello degli anni ‘40, dove la distruzione dell’offerta (imprese che chiudono per l’interruzione della catena di approvvigionamento o per i costi eccessivi raggiunte dalle materie prime) sarà concomitante ad un brusco rialzo dei prezzi, dovuto all’immissione di moneta che non trova più corrispettivi nell’economia reale ed alla penuria sempre maggiore di beni. In queste settimane si parla soventemente di “stagflazione”, ossia il ritorno all’economia degli anni ‘70 contraddistinta da bassi tassi e da un forte rialzo dei prezzi. Tuttavia, questo parallelismo è completamente fuori luogo.

Lo choc petrolifero degli anni ‘70, innescato dalla guerra arabo-israeliana del Kippur, fu funzionale al lancio del sistema dei “petrodollari”, dopo che Nixon aveva deciso di abbandonare il sistema di Bretton Woods e la convertibilità dei dollari in oro. L’impennata del prezzo greggio creava un’enorme richiesta di dollari che gli USA erano ben felici di fornire attraverso deficit di bilancio sempre maggiori: in sostanza Europa e Giappone erano salassate per acquistare il carissimo greggio dai Paesi arabi che, immediatamente, rinvestivano i loro proventi in Inghilterra ed USA. L’economia negli anni ‘70 continuò però a crescere, perché non ci fu alcun tipo di destrutturazione dell’economia mondiale come si sta invece sperimentando oggi. La globalizzazione del periodo 1991-2020 ha infatti creato un mondo interdipendente, simile a quello del 1914, basato sulla circolazione delle merci a livello globale, sulla delocalizzazione di ampi porzioni dei processi produttivi e sul cosiddetto “just in time”, il sistema produttivo che aveva bandito i magazzini e gli stoccaggi della merce: il collasso di tale economia integrata non ha niente a che fare con lo choc petrolifero degli anni ‘70 ed il brusco aumento del prezzo del gas e del petrolio non sarà seguito da un periodo di bassa crescita economica come 40 anni fa bensì, come nelle economie di guerra, da una radicale contrazione del PIL. La distruzione controllata dell’economia mondiale iniziata col COVID (benché i primi segnali di nazionalismo economico si fossero già avvertiti dopo la Brexit) non produrrà alcuna “stagflazione” ma una repentina, violenta e dolorosa caduta del PIL e del tenore di vita generalizzato. Per usare un neologismo, moltissimi Paesi sperimenteranno quindi nei prossimi mesi la “receflazione” bellica, come quella europea del 1914-1918 e del 1939-1945.

Si prenda in esame il caso italiano: a distanza di circa un mese dall’inizio del conflitto russo-ucraino, l’effetto combinato di carenza di materie prime e di impennata dei costi energetici, ha già messo a repentaglio industrie come quelle dell’acciaio, della meccanica, della carta, del vetro, della ceramica, dei concimi e, in una prospettiva non troppo remota, dell’alimentazione. Sezioni sempre più ampie dell’industria di base si dirigono verso una riduzione della produzione o addirittura la paralisi, con un conseguente effetto a cascata sull’economia. La riduzione dell’offerta comporta un automatico aumento dei prezzi: alla fine, si avrà meno ricchezza prodotta ad un costo maggiore. Recessione ed inflazione: receflazione. In quest’ottica, il ventilato “razionamento” dei beni ventilato dal governo Draghi per fronteggiare la crisi russo-ucraina, diverrà presto una necessità. Per far sì che ogni fascia della popolazione possa accedere ad una determinata quantità di beni (pane, carne, benzina, etc.) bisognerà fissarne il prezzo per legge e, allo stesso tempo, garantire a tutti la stessa quantità, al di là del reddito. L’Italia, inoltre, sconterà negli anni a venire la progressiva scomparsa del turismo internazionale, con danni permanenti nell’ordine del 2-3% de PIL. All’avvicinarsi del conflitto mondiale (ma il fenomeno è già visibile ora) si coglieranno poi appieno i danni prodotti dallo scientifico smantellamento dell’IRI dopo il 1992: Montedison, ILVA e Olivetti costituiscono vuoti incolmabili nel breve periodo. Senza prendere ancora in esame, il tema, più volte trattato, del rialzo dei tassi delle banche centrali e gli effetti che produrrà sul debito pubblico italiano.

In un’ottica più ampia, è ormai evidente che, seppellita la seconda globalizzazione (1991-2014), il mondo si diriga verso uno scontro tra blocchi tendenti sempre più velocemente verso l’autarchia. Russia e Cina formano un’entità perfettamente autarchica sotto il profilo dell’industria e delle materie prime, la cui disponibilità, data per scontata durante la globalizzazione, sarà solo più possibile in virtù di accordi politici e militari. Non solo, finché la Cina è “neutrale”, la Russia se ne può servire per avere un affaccio indiretto sul resto del mondo, in termini di approvvigionamento: le potenze anglosassoni faranno di tutto per togliere alla Cina lo status di “neutrale”, il prima possibile: attraverso sanzioni o attraverso una provocazione a Taiwan. È da notare che la Cina si sta preparando al conflitto riducendo progressivamente la sua dipendenza dal commercio estero (l’export valeva il 25% del PIL nel 2011, contro il 17% attuale). Il secondo blocco tendenzialmente autarchico è quello del Five Eyes o delle potenze marittime anglosassoni (UK, USA, Canada, Nuova Zelanda ed Australia): petrolio e alimenti non gli mancano, sebbene bisognerà vedere se il processo di reindustrializzazione forzato (come le nuove maxi fabbriche di chip programmate in Ohio e Texas o lo sviluppo delle “terre rare” in Australia) sortirà in tempo gli effetti autarchici sperati. Gli anglosassoni, inoltre, sperano di arricchirsi velocemente vendendo ad europei e giapponesi quanto prima era venduto alla Russia ad un prezzo minore (si pensi solo a gas, petrolio e grano).

Tra i due blocchi, è appunto la “zona d’attrito” corrispondente grossomodo con l’Europa, il Medio Oriente, l’India ed il Giappone. In questa zona, dove si collocano i Paesi che maggiormente dipendono dal commercio mondiale per vivere (Germania, Italia e Giappone) e per sfamarsi (si pensi alla dipendenza dei Paesi arabi dai cereali russi ed ucraini), l’economia di guerra produrrà gli effetti peggiori: caduta verticale della produzione e drastico aumento dei prezzi, con conseguente riduzione netta del tenore di vita e vastissimi disordini sociali e politici. La disperata necessità di riattivare i consueti canali di approvvigionamento energetico ed alimentare indurrà necessariamente questi Paesi a tentare di riallacciare i rapporti economici con Russia e Cina, facendo di Italia e Germania il probabile terreno di scontro del prossimo conflitto mondiale in Europa.

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