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lafionda

Il conflitto Nato-Russia e le ragioni del realismo critico

di Giulio Di Donato

Partiamo da una domanda: la logica di potenza è inestinguibile?

Se la risposta è affermativa, ciò significa che le uniche condizioni possibili per una pace stabile e duratura passano necessariamente per la ricerca di un equilibrio, di un bilanciamento fra le singole potenze.

Quando parliamo di rapporti di potenza – e i rapporti fra grandi Stati in una situazione di relativa anarchia nei rapporti internazionali, nonostante le varie organizzazioni sovranazionali esistenti, sono essenzialmente rapporti di potenza legati a determinati interessi strategici e a specifiche sfere di influenza -, il riferimento è alle relazioni tra aggregazioni in cui è intrinseca la tendenza dell’una (soprattutto se a stelle e strisce) a prevalere, a competere e a confliggere con l’altra. Occorre quindi, per dirla con Montesquieu, che una potenza arresti, limiti e contenga l’altra.

Oggi il conflitto è fra le istanze mai abbandonate di unilateralismo interventista e aggressivo degli USA e uno sguardo maggiormente orientato al multipolarismo di Cina e Russia. Il multipolarismo comunque già esiste nei fatti, ma si configura come un equilibrio precario attraversato, come ci dimostrano tragicamente i fatti di queste settimane, da mille tensioni.

Ma in parte non può che essere così. Come ben sapeva Carl Schmitt, il mondo è un pluriverso: ogni aggregazione politica è sempre “esclusiva” e si basa, almeno a livello potenziale, sulla distinzione/contrapposizione di amicus e hostis. Lo spazio globale è quindi irrimediabilmente plurale (se ogni comunità politica si organizza attorno ad una dialettica dentro/fuori, le relazioni internazionali sono soltanto una delle infinite “inclusioni-esclusioni” che nascono, si intersecano e si dissolvono come effetto delle mutevoli forme di aggregazione e lotta politica).

Insomma, la prospettiva a cui guardare è quella della piena accettazione di un mondo multipolare, che non sarà mai irenico e cooperativo, ma inevitabilmente competitivo e più o meno conflittuale. Ma è comunque il modello che meglio riflette e valorizza la complessità e la varietà del mondo contro qualsiasi ipotesi di reductio forzata ad unum. Un tale sistema bilanciato riduce inoltre i rischi di un conflitto globale, così come riduce i conflitti tra singoli paesi. Senza un blocco che faccia da contrappeso alla logica espansionistica del tecnocapitalismo americano, il progetto egemonico statunitense manterrà intatta la sua vocazione a imporre al mondo intero, con la consueta retorica umanitaria, il monopolio della sua economia e della sua visione del mondo. L’Europa, come grande spazio regionale, poteva e doveva svolgere una funzione di equilibrio in un mondo nel quale sono emerse potenze decise a liberarsi dall’unilateralismo degli Stati Uniti e a promuovere un aspetto pluralistico delle relazioni internazionali. Ma ancora una volta essa ha dimostrato tutta la sua sudditanza politica e militare agli USA.

Quel che è certo è che l’esito del conflitto in Ucraina comporterà una ridefinizione degli assetti geopolitici: chi spera in un consolidamento del multipolarismo deve augurarsi che il tavolo dei negoziati (colpevolmente boicottato secondo un copione già visto nel 1999 ai tempi della guerra del Kosovo) non si chiuda con la Russia pesantemente sconfitta e umiliata. Un tragico ridimensionamento di quest’ultima a tutto vantaggio del potere USA si ripercuoterebbe inevitabilmente sulla Cina in termini di isolamento e riequilibrio degli assetti a suo sfavore. Nel frattempo gli obiettivi degli USA sembrano chiari: favorire il protrarsi della guerra in vista di un logoramento della Russia (la cosiddetta opzione “pantano”) e spezzare i rapporti commerciali di quest’ultima con i paesi dell’Ue.

Non deve tuttavia stupire che la situazione internazionale sia così tragicamente precipitata. Avete presente la cosiddetta trappola di Tucidide? Bene, si può dire che siamo oramai dentro il paradigma delineato dal grande storico greco, il quale attribuiva lo scoppio della guerra fra Atene e Sparta nel V secolo avanti Cristo alla crescita della potenza ateniese, e alla paura che tale crescita ingenerò nella rivale Sparta. Oggi come ai tempi di Tucidide se una potenza dominante ma in declino si trova a dover fare i conti con una potenza emergente, facilmente – proprio come Sparta – non si rassegnerà alla perdita del suo primato, ma contrasterà in tutti i modi i tentativi delle forze emergenti di approfittare della sua crisi, e ciò finirà per scatenare la guerra. È facile capire perché ciò ci riguardi. Viviamo in una fase storica in cui una potenza a lungo dominante (gli Stati Uniti) deve fronteggiare una potenza emergente (la Cina) e una potenza che dopo una fase di decadenza prova a rialzare la testa (la Russia).

Come è stato di recente osservato, ciò che avviene tra Ucraina e Russia ruota attorno a quelle che saranno le parole d’ordine della geopolitica dei prossimi anni: logica di potenza, logica capitalistica, ordine internazionale unipolare e ordine internazionale multipolare. La logica di potenza assorbe e si lega alla logica capitalistica: tutte le grandi potenze, oggi, Cina e Russia comprese, hanno una economia di mercato, con la differenza che in Cina e Russia il centro direttivo politico mantiene il primato sul settore economico, sussumendo la logica capitalistica nella logica di potenza, che resta al comando. Mentre negli USA, come sappiamo, il complesso militare e tecno-industriale primeggia sul potere politico.

Di fatto, per circa mezzo secolo il mondo fu dominato da due superpotenze che si spartivano le loro aree di influenze, una limitava l’altra, con la deterrenza, il compromesso o la guerra fredda. Ma quando nel 1991 crollò definitivamente l’Unione sovietica, il bipolarismo mondiale fu sostituito dall’egemonia planetaria degli Stati Uniti: che interveniva quasi dappertutto; poteva bombardare e distruggere insediamenti militari, e perfino popolazioni civili; poteva ritenere alcuni stati canaglia e disporre dei destini planetari. Ma con gli anni, prendono consistenza geopolitica alcune varianti: il mondo islamico insorge e alcune sue punte estreme – incattivite dalla guerra del Golfo, la guerra all’Iraq e l’interventismo nel Medio Oriente – colpiscono obbiettivi simbolici della potenza euro-americana. Aiutato dall’espansione demografica e dai flussi di emigrati verso il nord e l’Occidente, l’Islam infrange l’ordine mondiale americano e stabilisce una nuova tensione non tra Est e Ovest ma tra Nord e Sud.

L’altra novità è naturalmente la Cina che diventa competitore globale degli Usa. Intanto la Russia si rialza e con Putin si avvia a riacquistare uno statuto di potenza, seppure non come prima del ’91. Non può accettare di essere ridotta al rango di singola nazione circondata dalle basi Nato e privata di ogni autorevolezza sovranazionale.

Con il crollo dell’Unione Sovietica, quindi, l’americanizzazione del mondo e l’occidentalizzazione del pianeta si sono via via estese fino a coincidere con la globalizzazione. Ma nel frattempo altri modelli, altre potenze toglievano all’Occidente il suo primato mondiale o almeno la sua esclusiva. L’Occidente non ha però mai rinunciato ad espandersi ovunque, anche se, come abbiamo visto, oggi ha un competitore globale nella Cina e un ostacolo-antagonista nella Russia di Putin che però non intende colonizzare il mondo, ma solo riaffermare e ridefinire i contorni della sua sfera di influenza nella sua area. Con Trump l’America sembrava preferire la splendida solitudine, con Biden ha recuperato le sue ambizioni di sempre: guidare il mondo, tornando ad essere il gendarme e il precettore del pianeta.

Quel che esiste, in definitiva, è un disordine globale che il potere unipolare statunitense ha propagato aprendo più scenari di guerra (Afghanistan, Libia, Siria, Somalia, ecc.) e spostando la Nato fino alle porte della Russia, per volontà dei Presidenti Usa a partire da Clinton. Quel che esiste è la volontà statunitense di perpetuare l’ordine unipolare creatosi dopo la fine della guerra fredda, fallito miseramente in Iraq e Afghanistan. Un ordine che Biden vorrebbe resuscitare usando l’Ucraina, per meglio sfidare Russia e poi Cina.

Di nuovo, allora: qual è la soluzione di fronte a conflitti come quello fra Russia e Nato? Non c’è una soluzione definitiva, ma un compromesso tra potenze, modelli, esigenze. L’unica soluzione realistica è dunque accettare la pluralità del mondo e circoscrivere, riconoscere la presenza di alcuni “grandi spazi”, per dirla con Carl Schmitt e con Samuel Huntington. La terra è abitata da una pluralità di potenze e paesi con aspirazioni e visioni contrastanti, che devono imparare il più possibile a coesistere pacificamente e a cooperare in vista di alcune grandi sfide comuni.

Questo sembra essere anche l’obiettivo della classe dirigente cinese: “Le civiltà che comunicano attraverso la diversità – afferma Xi Jinping nel 2019 – imparano l’una dall’altra attraverso gli scambi e si sviluppano attraverso l’apprendimento reciproco”.

Ritornando sulle ragioni del conflitto in corso, la storia degli ultimi anni ci parla delle continue provocazioni di Usa e Nato, che hanno esteso la loro presenza fino ai confini della Russia ed hanno rovesciato con la “rivoluzione arancione” di piazza Maidan – servendosi di forze apertamente fasciste come Pravy Sektor e altri – un legittimo governo che con la Russia aveva rapporti di buon vicinato. Dopodiché in Ucraina è iniziata una politica aggressiva contro i russofoni, ma non solo: leader e militanti comunisti sono stati aggrediti in Parlamento e fuori, ad alcuni partiti di opposizione è stato addirittura impedito di presentarsi alle elezioni, fino alla tragedia della strage di antifascisti a Odessa, su cui non abbiamo sentito fiatare nessun “democratico”.

Questa politica aggressiva verso i russi presenti in Ucraina (anche col divieto di parlare la loro lingua, fino ai pogrom veri e propri) ha provocato la secessione delle repubbliche separatiste di Donbass e Donetsk, oltre che della Crimea per volontà esplicita del popolo di quella regione. Questo ha infastidito Usa e Nato, che sognano una Ucraina a stelle e strisce, la quale rientri in possesso di quei territori, magari presentando il conflitto come una guerra “di difesa” contro “l’orso russo”.

Il punto qui non è il giudizio sulla Russia di Putin, ma sulla escalation di tensione e sull’operazione militare in atto. Ad ogni modo, Putin è senza dubbio un leader politico spregiudicato, con tendenze autoritarie, ma non meno di molti altri leader e statisti che governano il mondo. Guardando al panorama politico russo, chi scrive si sente semmai più vicino alle posizioni del Partito comunista, che è all’opposizione di Putin sul terreno economico, sociale e democratico, ma lo sostiene in politica estera. Rispetto alla fase precedente – quella di Eltsin e degli oligarchi che avevano acquisito a pochi soldi l’immenso patrimonio industriale dell’ex Urss, provocando una immensa crisi sociale, col crollo delle aspettative di vita e di tutti gli indici di benessere, senza garantire nemmeno la “democrazia” (ricordate il cannoneggiamento della Duma indocile nel 1993?), la gestione putiniana ha comportato un miglioramento, restituendo alla Russia la sua sovranità e facendo risalire gli standard di vita, tanto è vero che, fatta la tara dei possibili brogli, i russi in maggioranza lo votano.

Qui in Occidente invece è stato costruito una specie di Babau, Putin è il mostro, responsabile di ogni male, e questa costruzione serve appunto a giustificare politiche aggressive contro la Russia, come fu fatto a suo tempo con l’Iraq di Saddam, l’Afghanistan dei talebani, la Libia di Gheddafi: uomini non troppo virtuosi, certo, ma non meno dei governanti di Arabia Saudita, Turchia, Israele, dove però guarda caso sui “diritti umani” si chiudono entrambi gli occhi.

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