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lafionda

Contro l’esercito comune europeo

di Giacomo Cervo

L’invasione russa pare aver dato una decisa accelerazione alla discussione sull’opportunità di creare le forze armate dell’Unione Europea. Qui tre buone ragioni per essere contrari. 

In questi giorni si è tornati a parlare con insistenza di Esercito Comune Europeo. Non è una novità nel nostro dibattito pubblico, ma la guerra alle porte dei confini europei sembra per la prima volta porre il tema come un’assoluta esigenza: di fronte all’irrilevanza diplomatica dell’Unione Europea nelle trattative di pace, la corsa al riarmo e l’Esercito Comune sembrano le due risposte più logiche per smettere di essere vaso di coccio fra i vasi di ferro statunitense e russo. Ma una simile costruzione porta con sé insidie politiche e democratiche su cui vale la pena ragionare.

Una questione (geo)politica. La prima, più ovvia perplessità rispetto ad un Esercito Comune è come immaginare una forza militare condivisa fra Stati con interessi e politiche divergenti, se non concorrenti. Visegrad, Francia, Germania e Europa Meridionale mantengono interessi e zone d’influenza ben distinte, talvolta conflittuali. I nazionalismi dell’Europa Orientale hanno poi dimostrato tutta la loro pericolosità nel quadro del conflitto in Ucraina, fra la volontà di allegare il conflitto (Polonia) o legami con il sistema di potere putiniano (Ungheria).

Per queste ed altre ragioni ad oggi una politica estera europea ha stentato a nascere. I momenti di rara unità operativa, come in occasione dell’esclusione della Russia dal sistema SWIFT, sono parsi imposizioni dal “fratello maggiore” statunitense più che una elaborazione europea autonoma.

Una questione nazionale. Le prospettive per un Esercito Comune Europeo, con gli attuali rapporti di forza interni ed esterni all’Unione, sembrano due: subalternità alla strategia americana, o un eterno braccio di ferro fra gli opposti interessi nazionali europei, in assenza di istituzioni politiche capaci di mediare fra di essi. Senza dimenticare gli enormi rischi che una struttura militare potenzialmente gigantesca, legati ai nazionalismi dei paesi Visegrad, comporta: l’Esercito Comune diverrebbe non un elemento di stabilità geopolitica, ma un’ulteriore faglia d’instabilità. Dalla creazione di un esercito sovranazionale di grandi dimensioni emerge anche un altro rischio, una sua “rinazionalizzazione” nella prassi. Per spiegarci meglio, proviamo a pescare dal ‘900 la storia di un altro grande esercito sovranazionale: L’Armata Popolare Jugoslava. Racconta Jovan Divjak, guardia del corpo di Tito e ufficiale bosniaco (seppur di nazionalità serba) durante le guerre jugoslave, che nonostante la volontà titina di rappresentare nell’esercito il mosaico dei popoli jugoslavi, “[…] nel 1960 circa il 50% degli ufficiali era serbo, il 22% croato e il 2% sloveno. Alla morte di Tito, gli ufficiali croati erano il 14%, quelli sloveni non più del 3%. […] alla fine degli anni Ottanta, il 75% dei cadetti era serbo o montenegrino. Anche se Slobodan Milosevié avviò un’epurazione e una serbizzazione dell’esercito, terminata nel 1991, questa s’era già in buona parte compiuta nel corso degli anni, quasi automaticamente”. Se andassero a crearsi nell’Esercito Comune Europeo equilibri nazionali fortemente sbilanciati, per esempio con una netta preponderanza tedesca e francese (ad oggi i maggiori eserciti del continente), questo che effetti avrebbe sugli equilibri politici dell’Unione? Creare un esercito comune, altra grande sovrastruttura dopo il mercato comune e la moneta unica, prima di istituzioni democratiche realmente efficaci è una scelta lungimirante per il futuro politico dell’Europa?

Una questione democratica. Il 29 ottobre 1992, ad una Camera quasi unanime nel ratificare il trattato di Maastricht, Lucio Magri disse “Mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa completarlo con istituzioni democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria”. La stessa logica può essere applicata, con gli opportuni accorgimenti, all’Esercito Comune: l’Unione Europea rimanda la questione democratica dalla sua fondazione, ripromettendosi di rafforzare le proprie istituzioni rappresentative dopo aver allargato le proprie competenze. Per la sua natura neogiurisdizionale e tecnocratica l’Unione entra ciclicamente in crisi di legittimità: è successo dopo la crisi economica del 2008, è successo di fronte alla crisi migratoria, è ragionevole pensare possa succedere anche di fronte alle conseguenze economiche e politiche dell’invasione russa dell’Ucraina. Un Esercito Comune non imprimerebbe un’accelerazione alla democratizzazione delle istituzioni europee, ma rappresenterebbe l’ennesimo vincolo esterno a cui rispondere per la fragile democrazia europea. Una istituzione già di per sé problematica come l’esercito, slegata da legami nazionali e legittimazione popolare, rappresenta un rischio troppo grande per poter rimandare ad un futuro imprecisato la costruzione dei contrappesi democratici che dovranno controllarlo.

Per concludere. Non può esistere un Esercito Comune senza prima aver risolto le questioni geopolitiche, nazionali e democratiche ad esso legate. Se l’Unione pensa di poter costruire, mantenere e controllare il secondo esercito globale, dovrà prima dimostrare di saperle risolvere, reinventandosi e rivoluzionando i propri processi interni come mai dalla sua fondazione ad oggi. In assenza di tali risposte, l’Esercito Comune esacerberebbe le problematiche che affliggono il progetto europeo: subalternità agli Stati Uniti, crisi di legittimità e inefficienza democratica.

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