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Pandemia e guerra in Ucraina: la gestione del consenso e lo sfruttamento dei corpi

di Arianna Cavigioli

Nella conferenza “I nuovi mostri. Virus e russi si aggirano in Occidente”, Andrea Zhok esordisce sottolineando una continuità nei metodi utilizzati dalla classe dominante per costruire consenso intorno alle modalità di gestione della crisi sanitaria e al modo in cui viene affrontato il conflitto in Ucraina. Dunque, quali sono i punti di contatto fra il discorso sulla pandemia e quello sulla guerra? Che tipo di operazioni politiche sono state messe in atto a seguito di queste due narrazioni?

 

Semplificazione e creazione del nemico

Come scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere l’egemonia “non è affatto un potere mite. Perché se anche non utilizza la forza, il consenso è ottenuto tramite strategie manipolative, indottrinamento, costruzione di falsi miti e narrazioni funzionali al consolidamento del potere dominante: agisce nella sfera psicologica/emotiva/ideologica anziché in quella fisica, e l’assenso che produce non è quindi libero né attivo ma eterodiretto e passivo”. I cosiddetti “commessi” del potere, ovvero i giornalisti di testate più connesse e allineate agli interessi della classe padronale sono stati più che mai recentemente complici di semplificazione, appiattimento del pensiero critico, delegazione tecnocratica, e soprattutto costruzione del nemico.

Un nemico che è interno nella narrazione pandemica ed è esterno in quella bellica. Sono emersi chiari, meccanici e incontrovertibili identikit ed etichette: il no-vax (animale irrazionale, individualista, ignorante) e il filo-putiniano (guerrafondaio, hitleriano al contrario perché sostenitore della supremazia slava, autoritario). Interessante notare che come queste targhe non siano state conferite solo ai comuni cittadini, magari estranei al dibattito scientifico ma non per questo meno indegni di prendere posizione, ma anche a ricercatori, accademici, premi Nobel, giornalisti e opinionisti di spessore. Massacrare lo spirito critico e comprimere il dibattito pubblico, sia esso indirizzato a questioni mediche oppure volto a inevitabilmente complesse analisi geopolitiche, blocca la crescita di una società, la quale fiorisce proprio nella discordia di opinioni e nel confronto costruttivo e democratico. Come sostiene la giornalista di guerra Francesca Maiocchi in un’intervista per Pandora Tv, solo quando la pubblica opinione non è seduta davanti a un film polarizzante, stigmatizzante e confortante, ma è pressata, galvanizzata criticamente, solo in quel caso si creano le condizioni per un dibattito che sia il più ampio e plurale possibile.

Del resto ogni rapporto di ‘egemonia’ è necessariamente un rapporto pedagogico. La semplificazione è un valido ingrediente per impigrire le coscienze e delegare passivamente lo sviluppo della propria opinione alla narrazione dominante. Credere che un solo uomo (Putin), crudele dittatore sanguinario che utilizza mezzi di sfruttamento e tecniche di censura agli antipodi di quelli occidentali, tenga in ostaggio un intero popolo (i russi) in assenza di consenso popolare e nonostante una struttura politica ed economica a lui ostile, è un resoconto più semplice da digerire, che non richiede uno sforzo critico autonomo ma delega la presa di posizione all’informazione calata dall’alto. In questa fiabesca narrazione, oltre alla patologizzazione del nemico, segue anche un’idealizzazione del bene, che prima o poi trionferà per coerenza moralista. Il presidente Zelensky, noto attore di basso rango e attuale capo di uno governo strettamente legato agli Stati Uniti, appare un principe salvifico, che non può essere accusato di collaborazionismo con i battaglioni punitivi ucraini neo-nazisti, semplicemente per le sue inconfutabili origini ebraiche. Ben poco smuovono i seguenti fatti (derubricati alla voce “gossip filo-putiniano”)  che cozzano con l’immagine da benefattore del presidente ucraino: la denuncia da parte del direttore del comitato ebraico ucraino Eduard Dolinsky, lanciata durante la conferenza annuale del Europe Panel of Jewish (EPJ) del 2020, sul problema antisemitismo in Ucraina, la decisione di Zelensky di uscire dal comitato Onu per i diritti dei palestinesi, l’esistenza di soggetti politici connessi più o meno esplicitamente a gruppi neonazisti, infine l’inquadramento del battaglione punitivo Azov all’interno dell’esercito ufficiale.

 

Logica emergenziale

In un’epoca di emergenze reiterate ad infinitum, il ruolo dei media è più che mai fondamentale. In Italia il cosiddetto stato di emergenza, viene avallato da un sistema di informazione compiacente e subalterno che distoglie lo sguardo dalla complessità della realtà per limitarsi a fornire una puntuale copertura mediatica alla “necessità” di certe scelte, anche se queste comportano notevoli forzature degli equilibri costituzionali. Basti pensare al ruolo del Parlamento, ridotto a mero scendiletto del potere esecutivo e del potere presidenziale; all’introduzione di un dispositivo di sorveglianza e limitazione di diritti privo di fondamento scientifico (il green-pass o super green-pass); all’invio di armi e all’allineamento totale alle voci di guerra in spregio al buon senso e alla cultura della pace cui ci impegna la nostra Costituzione.

Naturalmente, la decisione sullo stato di emergenza è un atto profondamente politico, non risponde ad automatismi dettati dalla necessità delle cose. Se pensiamo alle infinite problematiche del nostro tempo (disoccupazione dilagante, crisi ambientale, fame nel mondo) e ai numerosi conflitti disseminati nel pianeta, di motivi per proclamare stati di emergenza ce ne sarebbero a iosa. Come sostiene Giorgio Agamben, possiamo considerare la logica emergenziale come un nuovo paradigma di governo, una risposta paternalistico-autoritaria alla crisi delle democrazie occidentali e all’ennesima crisi sistemica del capitalismo.

 

La responsabilizzazione dell’individuo in un clima di fantomatica solidarietà collettiva

Se da un lato assistiamo alla creazione del binomio nemico/eroe, interno o esterno che sia, dall’altro ci confrontiamo con un iper-responsabilizzazione dei singoli. La richiesta di continui sacrifici declinata in chiave bigotta e pseudo-moralista è presentata come l’unico strumento per assolvere ai doveri di solidarietà verso la propria comunità. Così, ad esempio, il problema dell’insufficienza delle terapie intensive frutto di anni di tagli alla spesa pubblica e di cortocircuiti nel rapporto fra pubblico e privato va addossato ai pericolosi renitenti al vaccino e a coloro che non seguono il protocollo comportamentale delle buone maniere. Per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, viene invece richiamata la cautela solidale nel consumo domestico: “per salvare il paese dal collasso, dobbiamo dipendere il meno possibile dal gas di Putin e resistere diminuendo l’utilizzo di energia elettrica nelle nostre case”.

La retorica del sacrificio messa nei termini di cui sora presuppone una sorta di omogeneità biologica nel primo caso e di classe nel secondo. Sappiamo, però, che ogni organismo è differente dall’altro in relazione alle più diverse condizioni personali e sociali, e sappiamo bene che non subiamo tutti allo stesso modo l’impatto della crisi.

Ecco dunque che la soluzione alle macro problematiche del nostro tempo che esigono risposte di sistema, come ad esempio la crisi ambientale, viene riposta nelle mani del singolo cittadino, incitato a fare la raccolta differenziata o a pagare extra tasse sul consumo di plastica mentre i grandi colossi industriali distruggono mari e foreste a un ritmo senza precedenti.

Inoltre, prima nella gestione pandemica ora con riferimento al conflitto in Ucraina, le dinamiche di controllo reciproco hanno giocato un ruolo fondamentale nell’attuale atmosfera poliziesca di ricerca delle responsabilità individuali. Sembra che il modello foucaultiano del Panottico, ovvero l’ostinata pretesa di sorvegliare e correggere il comportamento delle masse da una posizione di privilegiata invisibilità e all’interno di un preciso dispositivo di controllo (la scuola, la prigione, etc.), si sia ribaltato: a ciascun cittadino viene attribuito un potenziale ruolo di controllore. In questo modo la macchina dell’osservazione comportamentale e dell’attribuzione di responsabilità è più efficiente in termini di capillarità e di profitto, perché si avvale di inconsapevoli lavoratori senza salario: i cittadini stessi nei panni di controllori sociali di sé e degli altri.

 

Lo sfruttamento dei corpi

Paura, odio e conformismo sono il mix perfetto per l’assoggettamento mentale e fisico al potere. È un meccanismo ben presente nella propaganda guerrafondaia di questi giorni. Ma lo abbiamo visto anche a partire dal 2019, quando allarmismo, opacità in relazione alla campagna vaccinale e caccia alle streghe (allora il bersaglio erano i cosiddetti no-vax) hanno giocato un ruolo decisivo nel tentativo di dividere la società in basso, deresponsabilizzare il potere e ridurre ancora di più i margini della dialettica democratica.

Come scriveva Michel Foucault in Sorvegliare e punire “il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo assoggettato e corpo produttivo.” Lo sfruttamento produttivo dei corpi sarebbe, secondo il filosofo francese, strettamente connesso con l’assoggettamento degli stessi.

Il bios come luogo di espropriazione del profitto aleggia nelle modalità di gestione della crisi da Covid-19 (basti pensare all’assolutizzazione acritica dei vaccini made in Usa) e nell’attuale gestione del conflitto ucraino (da più parti viene la spedizione di soldati al fronte viene giudicata una eventualità più che tollerabile, necessaria per l’ottenimento della “pace”). Mentre salgono i titoli azionari legati alle imprese afferenti al complesso militare-industriale e farmaceutico, si riafferma il principio della sacrificabilità/utilizzabilità dei corpi, sia sul versante guerra e impatto della medesima, sia sul versante trattamenti sanitari e logiche da confinamento domestico. Le vittime reali di queste situazioni emergenziali rimangono naturalmente gli esponenti della classe oppressa e lavoratrice, che continueranno a subire un aumento del caro-vita, precarietà salariale e una compressione delle libertà individuali.

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