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riformista

È la guerra perpetua e la sinistra non lo sa

di Michele Prospero

Mentre Ursula von der Leyen si spinge sino a Kiev per rinsaldare lo spirito di vittoria nella santa guerra per la libertà, come per un effetto di ritorno a Budapest, a Belgrado (e ora anche a Parigi) la destra di osservanza putiniana riporta successi significativi. La sinistra pare stretta tra i gagliardetti nazionalisti, che riscaldano il senso dell’impegno dei giornalisti e dei cantanti, e la paura della crisi che stringe più da vicino gli strati popolari e precari. Lo schema è quello dell’appello di Nadia Urbinati e Roberto Esposito che associano stalinismo e nazismo e propongono ai cittadini di sopportare direttamente il costo degli effetti “gravi ma non catastrofici” nell’economia sprigionati dalle più dure sanzioni verso Mosca con l’embargo del gas e del petrolio (“prodotti sporchi di sangue”).

La convenienza materiale viene sfidata dagli ideali cosmopolitici. E quindi, in nome dei puri principi etici, “alcuni diritti alla libertà individuale possono essere sacrificati alla sopravvivenza di molti”. Il problema reale è però che l’estensione della guerra nell’economia ha dei costi nient’affatto trascurabili.

Per alcuni ceti più protetti certo è solo il condizionatore che viene abbassato. Per imprese e attività commerciali sono le saracinesche a essere sbarrate con la disoccupazione di almeno 600 mila nude corporeità. L’embargo e le sanzioni sono anche un rimedio farlocco perché allungano i tempi del conflitto.

Il paradosso di oggi è che i generali (alcuni li ha ascoltati De Giovannangeli per il Riformista) ragionano in termini politici molto equilibrati mentre la politica e la cultura adottano il paradigma bellico (nella variante militare o economica poco conta) come di per sé esaltante. Il silenzio della politica e della diplomazia conduce a una rischiosa eticizzazione del conflitto militare che affascina per via della magica risposta delle armi occidentali. Molti si fermano alla prima parte dell’art. 51 della Carta dell’Onu: il diritto dei popoli e dei singoli all’autotutela. Dimenticano l’altro corollario: è dovere degli Stati ricercare una soluzione pacifica al conflitto con conferenze di pace, iniziative dell’Onu, diplomazia.

Con la sua consueta onestà intellettuale, Angelo Panebianco delinea con precisione le implicazioni dell’interpretazione oggi prevalente della guerra ucraina come una prima tappa di uno scontro generale tra autocrazia e libertà, tra il campo occidentale stretto attorno alla ritrovata leadership americana e le potenze del male che alimentano i valori dissonanti da schiacciare presto. Egli annota che la guerra a Kiev è solo una contesa parziale alla quale seguiranno altre prove di potenza, e in tal senso “lo sforzo richiesto all’Occidente per fronteggiare la sfida dell’autocrazia russa (e forse, domani, anche di quella cinese) sarà un impegno di lunga durata”.

Mentre combattono a Kiev una sanguinosa guerra per procura, i governi devono prendere anche le misure di Pechino per non restare impreparati dinanzi all’inevitabile duello armato con l’impero asiatico. Su tali presupposti, l’irenica immagine kantiana della pace perpetua si rovescia in una più assorbente guerra perpetua, che adesso spezza le reni al male russo, per poi passare alla resa dei conti con la potenza cinese. Questa battaglia senza fine ha bisogno di mobilitazione, coesione, omologazione delle culture perché, per i deboli governi europei, nulla è più pernicioso di una moltiplicazione delle sensibilità.

È proprio questo clima di mobilitazione crescente l’obiettivo che si intende ottenere con le telecamere sempre accese sugli orrori russi. Con fiumi di immagini tutte orientate in una direzione, non si cerca di capire la banalità del male. Con le dirette infinite della guerra minuto per minuto si intende dipingere a tinte sempre più fosche la barbarie dell’orco russo, come lo chiama Paolo Mieli. La diretta permanente non ha lo scopo di informare sulle pratiche di sterminio (tollerate finché rivolte a popoli che avevano altri colori della pelle), si prefigge di gettare ostacoli al negoziato. Il complesso mediatico-militare intende invadere per intera la coscienza dei singoli ed essere performativo rispetto alla strategia della escalation militare che non tollera esitazioni, dialoghi con il macellaio che scava “le Fosse ardeatine” ucraine. Chi si ostina a non capire i processi reali, recupera l’oscena categoria di socialfascismo, la riformula nei termini di un rossobrunismo e vede in una rivista come Limes la bibbia geopolitica dei nemici del popolo.

L’obiettivo del pensiero mediatico a unica dimensione è di dare in pasto al pubblico i corpi martoriati con la speranza di preparare su una base di massa le nuove giornate radiose di maggio. Il potere, che in Europa versa ovunque in una crisi di legittimazione, cerca di spingere alla interiorizzazione della guerra infinita. E poiché nessun governo ha la sufficiente autorevolezza per portare i giovani alle trincee, la militarizzazione non si presenta come una determinazione dei politici ma come una loro risposta alla domanda ogni ora più incalzante che promana direttamente dal popolo indignato dinanzi al male assoluto, ai nuovi forni crematori. Solo che questa guerra di fatto espansiva, se riscalda una parte degli intellettuali liberali e biopolitici sedotti dai “desideri” dello spirito, non conquista molto i settori della società più sensibili alle materiali domande che vertono sui bisogni, sulla tutela dell’occupazione.

Un ordine mondiale che cancella l’orco russo (e che ricolloca la Finlandia e la Svezia nelle alleanze militari) è però impossibile da consolidare a costi tollerabili. Solo una terza guerra mondiale può estirpare la potenza glaciale moscovita e consegnare l’egemonia all’impero e ai suoi satelliti europei (con il triste presagio del riarmo tedesco e giapponese). Umiliata dal voto dell’Onu su iniziativa dell’Ucraina, la Russia ottiene però il sostegno o l’astensione di governi che rappresentano il 70% della popolazione mondiale. Scavare nelle inimicizie, non attenuarle in nome della risposta etica alle stragi degli innocenti, comporta il rischio di trascurare le ragioni strutturali del male di vivere russo, che sono profonde e da tutti rimosse. Molto sbagliato sarebbe ricondurre la prova delle armi al semplice delirio di uno zar impazzito e malato.

Uno studioso come Kalevi Holsti (Major Texts on War, the State, Peace, and International Order, Springer International Publishing, 2016) ricorda che, dopo il crollo dell’Urss, “ci sono fragili aree di cooperazione Est-Ovest, e chiaramente i russi non tollereranno l’incorporazione di parti dell’ex Unione Sovietica come l’Ucraina, l’Armenia e la Georgia in istituzioni occidentali come l’Unione Europea e la Nato. L’Occidente non ha inteso ascoltare gli avvertimenti russi su tali questioni, con il risultato che qualsiasi speranza di una grande zona di pace tra Vancouver e Vladivostok non è più realistica. La sovversione e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 ha formalmente messo termine ai sogni della fine del ventesimo secolo. Ancora una volta, si parla di deterrenza nucleare, di sanzioni economiche, della sicurezza delle repubbliche baltiche, della preparazione militare della Nato, dell’aumento della spesa per la difesa, e altri artefatti di rivalità piuttosto che di assimilazione”.

La follia strategica di Putin non cancella la questione politica che chiama in causa anche i fondamenti dottrinari di una visione agonistica dell’ordine internazionale definito come terreno di scontro tra democrazia e autocrazia. La condivisione dei valori universali della democrazia sarebbe di sicuro auspicabile ma non può costituire un paletto che discrimina tra i diversi attori delle relazioni internazionali. Ancora Kalevi Holsti: “Una delle principali fonti di conflitto interstatale oggi riguarda proprio le visioni contrastanti del nuovo ordine. Rimane aperta una contesa tra i principi di Westfalia sanciti dalla Carta dell’Onu e un liberalismo proselitista che sembra dire ‘a modo mio o no’. Il sogno di una comunità di Stati democratici vive e motiva anche la politica estera di molti paesi. Ma, in questo quadro, attori importanti come la Cina e la Russia non condividono la fede liberale e così continuiamo a sperimentare un mondo caratterizzato da gravi attriti”.

Il disordine mondiale esige una costruzione pattizia delle nuove condizioni dell’equilibrio alla quale concorrono gli attori più rilevanti secondo i canoni di legittimazione e legalità. Si tratta di calibrare due concetti fondamentali, quello di comunità di Stati e quello di società. Spiega Kalevi Holsti che la nozione di comunità di Stati rinvia a “un sottosistema speciale del mondo, legato insieme dalla cultura, da istituzioni politiche e pratiche economiche comuni, e da una base filosofica comune – il liberalismo – posta alla base di queste istituzioni e pratiche”. Non tutto il mondo, per i diversi gradi di sviluppo e di democratizzazione, può convivere alla luce di questa ristretta nozione di comunità che esalta democrazia e mercato come le sue divinità. Questo subsistema è valido in aree spaziali omogenee, non può estendersi all’intero mondo.

Per questo tocca rispolverare l’altro concetto, quello di società di Stati con attori che, chiarisce sempre Holsti, “mantengono contatti pacifici, si accordano anche sulle regole e sulle istituzioni fondamentali del sistema. Queste regole includono la stabilità del possesso (sovranità e territorialità), la sacralità dei trattati e il riconoscimento reciproco dell’indipendenza”. Il fondamentalismo liberale (che chiude gli occhi dinanzi alla reale condizione dell’Ucraina come Stato fallito, con poteri opachi, corruzione sistemica e milizie private), se diventa asse per determinare l’ordine sistemico mondiale, rischia di compromettere le relazioni pacifiche e l’avanzata dei diritti umani fondamentali.

Che occorra una soluzione nel segno del primato del diritto internazionale, e del riconoscimento del ruolo di influenza spettante alle potenze imperiali principali, è una strada che è stata avanzata da questo giornale (con la formula di una nuova Yalta) e ora è stata formulata anche dai costituzionalisti del CRS che stabiliscono un nesso tra pace e conferenza internazionale. Se la sinistra europea non segue questa strada politica e realistica, la prospettiva della de-escalation si farà largo attraverso le fortune elettorali delle destre sovraniste che ai desideri dei professori che disprezzano l’economico contrappongono i bisogni dei corpi che lavorano.

Comments

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daniela
Saturday, 23 April 2022 08:03
l'articolo è interessante e apprezzabile, ma la società degli stati, con visioni e pratiche non solo liberali, non può esistere perché il capitalismo o avanza o muore: ha bisogno di nuovi mercati, nuove materie prime, nuova forza lavoro a prezzi più bassi. o si espande o muore - vedi Marx e Wallerstein, per concludere il commento con una banalità
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