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sinistra

Cambiare gli occhiali per leggere meglio

di Pierluigi Fagan

La riflessione di oggi ha argomento apparente la Gran Bretagna, ma l’argomento reale è un altro. Partiamo dalla Gran Bretagna.

Due settimane -prima- del referendum Brexit, scrissi un articolo che inquadrava il problema sotto una luce del tutto diversa da quelle che lo illuminavano allora. Scrissi che “La ragione più forte per la Brexit è geopolitica a riprova del fatto che è questo il gioco che ordina e dà le condizioni di possibilità a tutti gli altri”. Era il giugno 2016. Le luci che illuminavano il temuto o benvenuto avvenimento erano di tutt’altro taglio. Per lo più si disputavano il punto di vista o i tagli monetaristici-finanziari-economici o i tagli politici pro o contro l’Europa. Il tutto in salsa analitica neoliberista o sovranisti vs unionisti, con ai bordi del ring i paradossali pro o contro migranti. Queste due salse erano declinazioni di una unica ricetta delle forme di pensiero, quella secondo la quale è l’economia politica la struttura portante degli eventi delle nazioni o forse l’economia sola in quanto tale.

Questa ricetta è abbastanza corretta, è indubbio che le nostre società occidentali rispondano a logiche di economia politica, il concetto stessi di “capitalismo” è una fusione di ragioni economiche non disgiungibili dalla politica e viceversa. Il problema di questa impostazione però è non osservare le condizioni di possibilità.

Il concetto di “condizioni di possibilità” è sul ciò che permette che delle tante cose che tali sono in potenza, una o più d’una diventi poi in atto mentre le altre rimangono nell’alveo di ciò che sarebbe potuto essere ma poi non è stato. Posso prender la patente ma non è detto poi che mi comprerò e guiderò davvero una macchina, ma se ho una macchina debbo avere una patente. La patente è la condizione di possibilità del poter guidare una macchina.

L’economia politica che nasce con l’opera di uno scozzese che parlava di “ricchezza delle nazioni” è poi diventato uno sguardo disciplinare che s’è dimenticato che le nazioni sono le condizioni di possibilità per l’economia politica. Complice una lunga storia parallela di capitalismo produttivo, poi finanziario, poi la globalizzazione recente con a fianco teorie descrittive e normative per ognuno di questi fenomeni, conformiste o critiche, si è formata una convinzione implicita per la quale la politica risponde all’economia e l’economia, le sue logiche ed i suoi stakeholders (tra cui i shareholders) sono la scaturigine degli ordini e degli eventi. Le "nazioni" come fornitori delle condizioni di possibilità sono scomparse.

Affermare nel 2016 e prima dello stesso voto referendario che la “Brexit” fosse invece un evento geopolitico, suonava come un piglio dissonante di uno studioso eccentrico. Usando però questa chiave di lettura, a me appariva chiaro il perché Cameron aveva indetto quello strano referendum apparentemente non necessario, il perché certi labouristi e conservatori ufficialmente si schieravano per il “Remain”, quando invece il loro scarso impegno e certe prolungate ambiguità favorivano di fatto di “Leave”, il perché l’entourage della Regina faceva trapelare la sua sostanziale preferenza per il Leave. Nei fatti, era una lotta tra gruppi di potere britannici o più propriamente inglesi, chi a favore del primato economico-finanziario contingente (Remain), chi -più lungimirante e strategico- a favore di diverse condizioni di possibilità che senz’altro nel breve avrebbero creato anche non pochi problemi di gestione della transizione, ma nel medio e soprattutto lungo tempo avrebbero favorito un ancor più brillante futuro all’Isola (Leave).

Gli spettatori dell’evento invece, noi italiani forse più di altri, pensavano di osservare un duello “popolo sovrano vs élite neoliberali”, perché questa era la luce che i nostri occhiali cognitivi lasciavano passare. Si trattava invece di un duello strategico tra élite che pensavano al contingente (per lo più economiciste e/o finanziarie) ed altre che pensavano strategicamente (dove l’economia ha condizioni di possibilità nella geo-politica, disciplina non a caso inventata da un inglese che era un geografo, politico, diplomatico che però risulta esser stato anche tra i fondatori, nonché primo direttore della London School of Economics).

Cameron risulterà poi aver avuto acceso un mutuo per comprarsi una lussuosa residenza molto al di sopra delle sue possibilità poco prima del voto e sebbene lui avesse già casa visto che abitava a Downing street. Il voto premiò “inaspettatamente” il Leave, Cameron si dimise per l’apparente autogol stile Radu, Theresa May provò a mediare tra le varie anime per una transizione soft, fallì. Arrivò Boris Johnson, indisse elezioni per ottenere un mandato chiaro e forte, le stravinse, la Brexit diventò hard-Brexit, la transizione finì. Si noti la volubilità dell’opinione democratica britannica, incerta sulla Brexit nel 2016 (il Leave vinse di poco), entusiasta e muscolare solo tre anni dopo. C’è da dire che nella lunga serie di “morbosi fenomeni” previsti dal Gramsci nel concetto di transizione, i “populisti” spiccano per una forma grave di profonda confusione mentale.

La ragione strategica alla base dell’operazione Brexit da parte di una certa parte delle élite anglo-britanniche (più anglo che britanniche), scambiate qui per paladini del popolo sovrano da parte di gente che parla e scrive ad alta voce quando invece non sarebbe male se rimettesse un po’ la testa sui libri per meritarsi il ruolo di leader d’opinione che poi vogliono trasformare in leadership politica perché anche loro “tengono famiglia”, era dunque geopolitica. Imperiale nello specifico. BJ non era un paladino del popolo ma un noto rampollo dell’imperialismo britannico. Il mondo diventava multipolare come sapevano tutti coloro che studiano il mondo usando più sguardi disciplinari (pochi), il Regno Unito voleva tornare libero di esser un giocatore in proprio perché se la ricchezza ha condizioni di possibilità nella potenza delle nazioni, l’Isola doveva tornare alla libertà di potenza.

Due anni fa, in piena pandemia, BJ vara un piano di investimenti di 18,5 miliardi di sterline in armi, il più massiccio degli ultimi trenta anni poiché in questo gioco la potenza si misura così. Salto molti particolari. Arriviamo alla violazione delle acque territoriali russe nel Mar Nero ad ottobre 2020 con un cacciatorpediniere inglese. Poi di nuovo giugno 2021 nelle acque prospicenti la Crimea. Poi a luglio 2021, esercitazioni congiunte Cossack Mace 2021 tra UK ed Ucraina (assieme a USA, Canada e Svezia) in quel di Mykolayiv che oggi dista pochi chilometri dal fronte russo in direzione Odessa. Esercitazioni in chiave antirussa, queste ultime, di una lunga lista che troverete negli allegati. Arriviamo poi all’annuncio di una nuova alleanza militare UK-Ucraina-Polonia tre settimane prima dell’inizio dell’invasione russa. Infine, la cronaca degli ultimi giorni con un crescendo di dichiarazioni telluriche a voce Boris Johnson con controcanto dell’ineffabile Liz Truss (Esteri) ed oggi in particolare anche Ben Wallce (Difesa). Per non parlare delle consegne di armi agli ucraini da molto tempo addietro e molteplici sgarbi diplomatici UK-Russia anche via giornalisti espulsi, BBC e molto altro.

Quindi, il post non era poi proprio sulla Gran Bretagna in quanto tale. Ci serviva solo per fare un appello a coloro che pure frequentano lo sguardo critico alla ostinata ricerca di modi per migliorare le nostre società in chiave di pace, maggiore eguaglianza e giustizia generale. Forse occorre domandarsi che occhiali si usano per leggere gli eventi del mondo perché il mondo se non lo conosciamo, non potremo cambiarlo.

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