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Lavoro, salario minimo, tempo rubato e informazione

Intervista a Simone Fana

Ormai il triste e famoso e “There is no alternative” della Thatcher è stato accettato e condiviso sia dalle forze neo liberiste sia da quelle di centro sinistra che dovevano fermare questo processo senza uscita; il capitale ormai è inconscio collettivo introiettato ed è “più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” (M. Fisher).

Il capitalismo si riflette e si alimenta attraverso mille linee e mille piani della nostra società: la ristrutturazione selvaggia del lavoro, il ruolo del capitalismo finanziario in grado d’innescare crisi economiche e guerre reali ovunque, il mondo tecnologico e digitale che sta ormai conquistando soggetti politici e immaginari collettivi, la catastrofe ambientale, il sistema scolastico e sanitario a pezzi, la burocrazia infinita, la perdita di memoria collettiva e di futuro condiviso. In questa crisi senza fine e indefinibile, moltiplicata dalla pandemia ancora in corso e dalla guerra in Ucraina, dove domina soltanto la narrazione neoliberista e occidentale con ristrutturazioni e soluzioni dettate soltanto dall’agenda del capitale, non riesce a nascere una forza politica reale, partito, movimento o sindacato, che possa quanto meno modificare e trasformare i rapporti di forza attuali.

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La battaglia intorno al salario minimo si presenta ormai irrevocabile e durissima; ma anche la possibilità di ridurre l’orario o la capacità di deciderlo, il contenuto stesso del lavoro, il modo di eseguirlo sono nodi fondamentali per ridefinire i rapporti di forza interni e gli stessi regimi di controllo sui lavoratori. Come anche il reddito incondizionato di base, il lavorare tutti e meno, la pensione minima, la questione delle Partita Iva, quelle vere e quelle finte, la lotta contro il sistema pervasivo di sfruttamento del lavoratore o quel tempo rubato di cui tratti nel tuo libro, non dovrebbero far parte di un’unica battaglia intorno al tema del lavoro? Inoltre la questione del lavoro non dovrebbe legarsi e unirsi a quei movimenti antirazzisti, femministi ed ecologici che hanno “ravvivato” gli ultimi anni?

Parto dalla seconda domanda.

Io credo che la battaglia per il salario minimo sia uno spazio di ricomposizione reale del lavoro vivo in Italia, che tiene dentro una pluralità di segmenti della società italiana. La durezza della condizione salariale riguarda in gran parte le giovani generazioni, le donne, i lavoratori e le lavoratrici migranti e si abbatte prevalentemente sul Mezzogiorno. Sono questi i settori e i segmenti sociali che vivono in larga misura di salari da fame, di lavoro gratuito, di sfruttamento. Insomma, su un piano oggettivo, la battaglia per un salario minimo implica la possibilità concreta di allargare lo spazio delle alleanze sociali, tenendo dentro proprio i temi che ponevi tu: la questione razziale, la questione di genere e direi la questione generazionale. Si tratta di un vera e propria giuntura intersezionale, che coinvolge uno spazio potenzialmente in grado di alimentare energie politiche nuove, prive di rappresentanza, ma in grado di cambiare il volto di questo paese.

Sulla seconda questione che poni.

Io direi, che dovremmo tornare alle origini del movimento operaio per comprendere quanto la questione del tempo e del salario siano strettamente legate. Non serve citare Marx e la categoria del plusvalore relativo, per dire che oggi i bassi salari siano una condizione di controllo sul tempo di lavoro e sul tempo di vita. Il controllo sul tempo, che significa controllo sulla vita, riflette la piena degradazione dei rapporti di lavoro, che oggi non trovano uno spazio di riequilibrio anche per la debolezza delle organizzazioni di rappresentanza, ma sono uno spazio di dominio di una parte sull’altra. Dunque, trovi lavoratori e lavoratrici che lavorano 9/10 ore al giorno e poi non lavorano per intere settimane. Se guardiamo la pervasività dei contratti a termine in Italia, notiamo proprio questo: esistono più di due milioni di persone coinvolti in rapporti di breve durata, con contratti che per oltre il 50% non superano il mese, dove il controllo sul tempo di lavoro è unilaterale. E si è contemporaneamente costretti a fare due/tre lavori perché un lavoro è pagato talmente poco da non consentire la sopravvivenza.

Oggi per riequilibrare questo rapporto devi agire su due piani: in termini tradizionali potremmo dire che bisogna agire sulla “fabbrica” e sulla “società”. Rivendicando strumenti di protezione universale nel lavoro (salario minimo) e meccanismi di garanzia sociale (reddito, pensioni e servizi sociali). Non c’è da inventare molto, ci sarebbe solo di tornare alle origini di una storia che ci appartiene e che ha consentito ai lavoratori e alle lavoratrici di essere protagonisti non solo nei luoghi di lavoro ma nella società.

 

In questo senso le lotte intorno alla GKN risultano importanti perché vanno oltre la singola vertenza sindacale e la salvezza dei posti di lavoro e tentano di allargare l’orizzonte di lotta verso altri piani d’azione e immaginari collettivi. Che lezione possiamo trarre dalla lotta intorno alla GKN?

La prima lezione è che il conflitto può essere ancora organizzato, che può conquistare consenso quando è portato con parole chiare, nette, senza ridondanze ideologiche. Ci dice che la partita non è finita, nonostante provano a convincerci del contrario. Si può alzare la testa, nonostante sembra tutto finito e il mondo del lavoro ha ancora risorse straordinarie di generosità da mettere a disposizione per il paese. Questa lezione è fondamentale, perché la vittoria della controparte è proprio quella di aver convinto una gran parte del mondo del lavoro che non serve lottare, non serve rivendicare condizioni di libertà nel lavoro e dal lavoro, che non ne vale la pena, perché tanto si perde.

Ci vuole perseveranza, credere che quando si lotta si può vincere, mentre quando non si lotta si perde sempre. In più, i lavoratori sono stati capaci subito di collegare la vertenza specifica per la tenuta occupazionale dello stabilimento di Campi Bisenzio con la condizione generale del tessuto industriale del Paese. E’ abbastanza singolare che debbano essere i lavoratori e le lavoratrici a ricordare alla politica l’assenza trentennale di una strategia di consolidamento e potenziamento della struttura industriale del paese. Ma cosi è, e bisogna assumerlo. Questo è un paese in cui i governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni hanno contribuito a demolire la stessa reputazione della “politica”, rinunciando a svolgere un ruolo di guida e alimentando il vento dell’anti-politica. E sono appunto i lavoratori e le lavoratrici organizzati l’unico vero antidoto all’antipolitica.

 

Il ruolo dell’informazione, dei giornali, delle TV, dei social diventa fondamentale per capire e riconfigurare i reali rapporti di forza esistenti. Cosa possiamo fare di fronte a questa informazione massiccia, pervasiva, densa di luoghi comuni o temi già stabiliti a tavolino, come gli attacchi di Confindustria e dei suoi maggiordomi verso il salario minimo o la libertà di licenziare; per non parlare dell’utilizzo del termine divano per coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza o che lavorano in Smart Working? Oppure il problema delle fake news o del complottismo di ogni genere che di fatto contribuiscono a formare un insieme culturale fragile, illusorio e comunque sfruttato a pieno dalla propaganda della destra. La battaglia intorno all’accesso della conoscenza e al ruolo della tecnologia non sarà veramente quella decisiva per il destino del mondo del lavoro e del futuro a venire?

Lo stato dell’informazione nel nostro paese è tragico. Lo vediamo in queste settimane nel racconto della guerra, ma è un discorso che possiamo generalizzare. C’è un conformismo spaventoso su cui si innesta un attacco senza precedenti sul mondo del lavoro. L’aspetto su cui dovremmo riflettere è che quando gente come Briatore, Alessandro Borghese, ma ricordiamo anche Brunetta e Bonomi, sostengono che il reddito di cittadinanza è una misura che disincentiva il lavoro o associando lo smart working alle vacanze, lo fanno senza dare mai fondamento empirico alle loro opinioni. Voglio dire, che si crea un discorso assolutamente privo di riferimenti alla realtà, che vive di suggestioni, un sentito dire che finisce per costruire un racconto totalmente falsificato. Ora che siano personaggi dell’avanspettacolo italiano, che fanno le loro fortune su rendite posizioni, perché sono figli di qualcuno è un fatto che genera certamente indignazione, ma quando i responsabili di queste frottole siano attori istituzionali o figure che ricoprono incarichi di governo, allora la faccenda diventa grave, perché in ballo c’è la credibilità delle istituzioni e della stessa democrazia. Io credo, che l’unico modo di rompere questa cortina fumogena di fake news, di assalti frontali, sia perseverare nella contro-informazione, con la serietà dei dati, dei numeri e allo stesso tempo trovando le parole giuste per alimentare consenso. Quando abbiamo scritto Basta Salari da Fame, la nostra intenzione era propria questa: individuare parole d’ordine che andassero dritte al punto, sollecitando una presa di consapevolezza diffusa nel mondo del lavoro e contemporaneamente mantenendo un rigore analitico che rendesse le nostre argomentazioni difficilmente smentibili.

Questo mi porta a dire che certamente l’accesso alla conoscenza sia un passaggio essenziale per dare forma e sostanza a un discorso “politico” alternativo all’esistenze. Abbiamo bisogno come l’aria di un’espansione degli spazi di democrazia nell’accesso all’istruzione, come abbiamo bisogno di ricostruire organizzazioni con un punto di vista “autorevole” sul presente.

 

Di fronte al potere pervasivo del capitalismo digitale e della robotica e tenendo conto della grave crisi ambientale e sociale in corso, che la pandemia ha moltiplicato, non bisognerebbe mettere in discussione il concetto di lavoro, crescita, sviluppo, società patriarcale e cominciare a spostare la battaglia su quei piani che riguardano direttamente il mondo reale delle persone come la scuola, la sanità, la casa, l’alimentazione, il vivere davvero tutti un’esistenza dignitosa?

Non sono sicuro che funzioni una prospettiva che si muova solo sul piano dei “valori”. Io sono concorde sulla necessità di lavorare meno e lavorare tutti, sulla redistribuzione del reddito, sull’accesso universale al welfare, ecc. E certamente dobbiamo muoverci in questa direzione. Ma allo stesso tempo, credo che dobbiamo stare attenti a una tendenza (che vedo anche a sinistra) che finisce per aprire fratture controproducenti tra lavoristi / redditisti, tra coloro che sostengono la crescita economica e coloro che teorizzano forme di decrescita, e potrei andare avanti. La tendenza a costruire polarizzazioni come queste ci fa perdere di vista un aspetto essenziale, che è il potere. Voglio dire che sono i rapporti sociali a determinare se il lavoro può essere fonte di liberazione individuale e collettiva, è il controllo sulla proprietà dei mezzi di produzione e sul processo lavorativo che determina quanto il lavoro sia spazio di realizzazione di sé o invece un luogo in cui si produce anomia e alienazione. Una questione analoga solleva la questione ambientale e il suo rapporto con la crescita economica. Non dobbiamo cadere in una polarizzazione manichea. La crescita dei consumi pubblici e privati è oggi una necessità fondamentale per ripristinare un meccanismo di distribuzione del reddito verso le classi medio-basse e sollevarle da una condizione di impoverimento, come è un’esigenza improrogabile salvare il pianeta. Queste due esigenze: garantire i redditi e il potere d’acquisto delle persone e promuovere uno sviluppo compatibile con i vincoli ambientali possono andare insieme, a patto che ci sia una chiara direzione degli investimenti e della spesa pubblica. Un esempio: si parla da qualche tempo della transizione all’elettrico nel settore automotive. Bene, la transizione può essere governata nell’interesse pubblico, dirottando gli investimenti nella costruzione di infrastrutture per la mobilità o si può andare avanti con incentivi individuali che favoriscano i consumi privati. Questo richiede politiche industriali. La stessa logica può essere applicata sul tema dell’efficienza energetica: si può lavorare a un piano pubblico di investimenti per la riqualificazione energetica delle scuole e degli ospedali o si possono fare sconti indiscriminati a chiunque per rifare le facciate, sia ai possessori di ville che a operai con un bilocale.


Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur) e con Marta Fana di Basta Salari da Fame (Laterza). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali; inoltre è attivista della rete UP!

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