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scenari

Le contraddizioni sociali del capitalismo liberale

di Nancy Fraser

La crisi dei tradizionali modelli e strumenti di cura deriva da uno squilibrio sempre meno sostenibile tra famiglia e lavoro? O ci troviamo di fronte a una crisi sociale, politica, economica e culturale assai più vasta e profonda, di cui la trasformazione della cura sarebbe solo un elemento, difficile da isolare rispetto ad altri? In La fine della cura (traduzione di Leonard Mazzone, Mimesis Edizioni, 62 pag., 6 €, 2017) Nancy Fraser, fresca vincitrice del Premio Nonino 2022, propone la sua visione del capitalismo contemporaneo e del modello neoliberale di femminismo.

Su Scenari ne proponiamo un estratto.

* * * *

Prendiamo in esame, anzitutto, il capitalismo liberale-competitivo del XIX secolo. A quel tempo, gli imperativi della produzione e della riproduzione sembravano in reciproca contraddizione. Erano queste, di certo, le circostanze nei primi poli manifatturieri del centro capitalistico, dove gli industriali costringevano donne e bambini a lavorare nelle fabbriche e nelle miniere, bramosi del loro lavoro a basso costo e della loro rinomata docilità.

Pagati una miseria e costretti a lavorare per lunghe ore in condizioni insalubri, i lavoratori divennero i simboli dell’indifferenza del capitale nei confronti delle relazioni e delle capacità sociali che ne sostengono la produttività. Il risultato fu una crisi che si sviluppò su almeno due livelli: da una parte, una crisi della riproduzione sociale fra i poveri e fra le classi lavoratrici, le cui capacità di autoostentamento vennero fortemente compromesse; dall’altra, un panico morale diffuso fra le classi medie, scandalizzate da ciò che interpretavano nei termini di una “distruzione della famiglia” e di una “desessualizzazione” delle donne proletarie.

La situazione era così disperata che persino critici tanto acuti come Marx ed Engels scambiarono questo primo conflitto frontale tra produzione economica e riproduzione sociale per il suo ultimo atto. Immaginando che il capitalismo stesse per volgere al termine, credevano che, svuotando dal di dentro la famiglia della classe lavoratrice, il sistema stesse anche estirpando la base dell’oppressione femminile.

Quel che davvero accadde, però, fu l’esatto contrario: col tempo, le società capitalistiche reperirono le risorse utili a gestire questa contraddizione – creando la “famiglia” nella sua moderna forma privata, inventando nuovi significati irrigiditi della differenza di genere e modernizzando la dominazione maschile.

Nel cuore dell’Europa, il processo di riassestamento iniziò con la legislazione protettiva, introdotta allo scopo di stabilizzare la riproduzione sociale limitando lo sfruttamento di donne e bambini nel lavoro di fabbrica. Capeggiata dai riformatori della classe media alleatisi con le nascenti organizzazioni dei lavoratori, questa “soluzione” rifletteva una complessa mescolanza di differenti motivazioni. Uno degli obiettivi, descritto come è noto da Karl Polanyi, era di difendere la “società” dall’“economia”. Un altro consisteva nell’attenuare la preoccupazione per il “livellamento di genere”. Ma tali motivazioni erano interconnesse anche con qualcos’altro: enfatizzare l’autorità maschile su donne e bambini, soprattutto all’interno della famiglia. Di conseguenza, la lotta per assicurare l’integrità della riproduzione sociale finì per promuovere la difesa della dominazione maschile.

L’effetto desiderato, comunque, fu quello di attenuare la contraddizione sociale nel centro capitalistico – mentre schiavitù e colonialismo in periferia la andavano innalzando a un grado estremo. Creando ciò che Maria Mies chiamò la casalinghizzazione (housewifization) per designare l’altra faccia della colonizzazione, il capitalismo liberale-competitivo sviluppò un nuovo immaginario di genere, incentrato su “sfere separate”.

Rappresentando la donna come “angelo della casa”, i suoi fautori cercarono di controbilanciare la volatilità dell’economia. Lo spietato mondo della produzione doveva essere affiancato da un “porto sicuro in un mondo senza cuore”. Finché ognuna delle due parti avesse mantenuto la propria sfera di competenza, funzionando come complemento dell’altra, il conflitto potenziale sarebbe rimasto celato.

In realtà, questa “soluzione” si dimostrò piuttosto instabile. La legislazione protettiva non avrebbe potuto assicurare la riproduzione del lavoro, se i salari fossero rimasti al di sotto del livello necessario a sostenere una famiglia, se gli affollati caseggiati avvolti dall’inquinamento avessero distrutto la privacy e danneggiato i polmoni dei loro abitanti e se la stessa occupazione (quando disponibile) fosse stata soggetta a fluttuazioni volatili, dovute a bancarotte, crolli del mercato e panico finanziario. Simili accorgimenti non potevano soddisfare neppure i lavoratori. Battendosi per l’aumento dei salari e per migliori condizioni di lavoro, diedero vita ai sindacati, scioperarono e si unirono ai partiti laburista e socialista. Spaccato da un conflitto sociale sempre più acuto ed esteso, il futuro del capitalismo sembrava tutt’altro che certo.

Le sfere separate si dimostrarono altrettanto problematiche. Le donne povere, connotate in termini razziali, e le lavoratrici non erano nella condizione di soddisfare gli ideali vittoriani di vita domestica; se la legislazione protettiva aveva mitigato il loro sfruttamento diretto, non aveva però fornito alcun sopporto materiale, né alcuna compensazione per gli stipendi perduti. Allo stesso tempo, neppure le donne della classe media, che pure avrebbero potuto soddisfare gli ideali vittoriani, si mostravano sempre appagate dalla loro situazione, che combinava il comfort materiale e il prestigio morale con uno stato di minorità giuridica e di dipendenza istituzionale. In entrambi i gruppi, la “soluzione” delle sfere separate andava largamente a scapito delle donne. Ma essa contrapponeva anche le une alle altre, come testimoniano i conflitti del XIX secolo sulla prostituzione, che schieravano le preoccupazioni filantropiche delle donne della classe media vittoriana contro gli interessi materiali delle loro “sorelle smarrite”.

Una dinamica differente si dispiegò nella periferia. Mentre il colonialismo estrattivo depredava le popolazioni sottomesse, qui non furono introdotte le sfere separate né strumenti di protezione sociale.

Lungi dal tutelare le relazioni indigene di riproduzione sociale, i poteri coloniali promossero attivamente la loro distruzione. I contadini furono saccheggiati, le loro comunità ridotte in macerie per fornire alimenti, tessuti, minerali grezzi ed energia a prezzi economici, senza i quali lo sfruttamento dei lavoratori dell’industria nella madrepatria non sarebbe stato redditizio. Sul continente americano, intanto, le capacità riproduttive delle donne ridotte in schiavitù venivano sfruttate per il profitto dei proprietari delle piantagioni, che distruggevano regolarmente le famiglie di schiavi vendendo separatamente i loro membri a diversi acquirenti. Anche i bambini nativi venivano strappati dalle loro comunità, reclutati nelle scuole missionarie e sottoposti a discipline coercitive di assimilazione culturale.

Quando si rendevano necessarie delle giustificazioni, le condizioni “arretrate, patriarcali” dei vincoli di parentela precapitalistici fornivano un buon argomento. Anche in questo caso, tra i colonialisti, le donne filantropiche trovarono una piattaforma pubblica, che esortava “gli uomini bianchi a salvare le donne di colore dagli uomini di colore”, per riprendere le parole di Gayatri Spivak.

In entrambi gli scenari, in centro come in periferia, i movimenti femministi si muovevano su un campo politicamente minato. Rigettando lo status legale di donne sposate e le sfere separate, rivendicando il diritto di votare, di rifiutare il sesso, di essere titolari di proprietà privata, di stipulare contratti, di praticare le professioni e di contrattare i propri salari, le femministe liberali sembravano valorizzare l’aspirazione “maschile” all’autonomia rispetto agli ideali “femminili” di educazione. E almeno su questo punto le loro controparti socialiste e femministe si ritrovarono effettivamente d’accordo. Concependo l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro salariato come il viatico per l’emancipazione, anche queste ultime preferirono i valori “maschili” associati alla produzione rispetto a quelli connessi alla riproduzione.

A dispetto del carattere ideologico che certamente le contraddistingueva, quelle associazioni veicolavano un’intuizione profonda: nonostante le nuove forme di dominazione introdotte, l’erosione capitalistica delle tradizionali relazioni di parentela racchiudeva infatti un potenziale emancipativo.

Alle prese con un doppio vincolo, molte femministe si trovarono a disagio con ciascun lato del doppio movimento descritto da Polanyi, sia sul fronte della protezione sociale, con l’annessa dominazione maschile, sia su quello della mercatizzazione, che trascurava la riproduzione sociale.

Incapaci di rigettare come di accettare l’ordine liberale, avevano bisogno di una terza alternativa, che chiamarono emancipazione.

Perché potessero autorevolmente far proprio quel termine, le femministe di fatto abbatterono l’immagine dualistica di Polanyi e la sostituirono con quello che potremmo chiamare un triplo movimento.

In questo scenario conflittuale tripartito, i sostenitori della protezione e della mercatizzazione entrarono in collisione, non solo gli uni con gli altri, ma anche con i fautori dell’emancipazione: con le femministe, certo, ma anche con i socialisti, gli abolizionisti e gli anti-colonialisti, ciascuno dei quali si adoperò per schierare le due forze di Polanyi l’una contro l’altra, anche là dove coincidevano.

Benché promettente da un punto di vista teorico, una simile strategia era difficilmente praticabile. Finché gli sforzi di “proteggere la società dall’economia” furono identificati con la difesa della gerarchia di genere, l’opposizione femminista alla dominazione maschile poteva essere facilmente accusata di sostenere le forze economiche che stavano devastando la classe lavoratrice e le comunità periferiche. Queste associazioni si sarebbero dimostrate sorprendentemente durature, anche dopo il collasso del capitalismo liberale-competitivo sotto il peso delle sue (molteplici) contraddizioni, tra le doglie delle guerre tra imperialisti, delle depressioni economiche e del caos finanziario internazionale.

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