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Lavrov-Brindisi vs Krusciov-Lippmann: la libertà di stampa e la volontà di comprendere

di Guido Barbi*

L’intervista televisiva di Giuseppe Brindisi a Sergej Lavrov è stata denunciata da molti commentatori, politici e personaggi istituzionali come inappropriata e pericolosa – rea di fornire una tribuna alla disinformazione di Mosca, di diffondere pericolose teorie complottiste, o addirittura di minare la sicurezza nazionale italiana.

Per fortuna questa condanna non è stata unanime.

Di fronte al biasimo per un’intervista colpevolizzata per avere dato la parola all’intervistato, non pochi hanno ricordato l’importanza della libertà di stampa e di informazione per una democrazia. Ma anche fra chi si è sforzato di sottolineare l’importanza della libera informazione – particolarmente in un tempo permeato di retorica bellicistica, se non proprio bellica –, molti si sono comunque affrettatati a fare delle specificazioni. Lo spazio dato al ministro Lavrov sarebbe stato importante proprio per dimostrare – a mo’ di esibizione simbolica – quanto la Russia non sia disposta a trattare e quanto la guerra in Ucraina non abbia altra radice che quella di un male assoluto congenito al sistema putiniano.

Insomma, l’intervista è permessa perché la libertà di stampa non si tocca, ma il suo contenuto non va preso sul serio – anzi serve solo a confermare la narrativa monolitica che circonda e ha circondato prima la crisi e poi la guerra in Ucraina.

In questa chiave, le polemiche circa l’opportunità dell’intervista dovrebbero sorprenderci e direi anche preoccuparci, ben al di là dei suoi risvolti rispetto alla nostra sempre più precaria concezione della libertà di stampa e di opinione.

L’episodio mi ha ricordato, per contrasto, l’intervista a Nikita Krusciov fatta da Walter Lippmann nel 1961. Certo, il paragone è impietoso. Viene subito da pensare a Marx, che citando un immaginario Hegel, diceva, come è ben noto, che la storia si ripete, ma la seconda volta a mo’ di farsa. Con tutto il rispetto, il conduttore-intervistatore Brindisi non è certo Lippmann – forse la penna più prestigiosa del giornalismo americano del XX secolo. E nemmeno Lavrov (o Putin) sono forse Krusciov. Lippmann incontrò Krusciov a Sochi per alcuni giorni e il resoconto di questo incontro fu pubblicato in tre parti sul New York Herald Tribune. Siamo nell’aprile del 1961, all’apice della guerra fredda, nel periodo compreso tra le crisi di Berlino e la crisi missilistica di Cuba. Lo scontro ideologico e geopolitico tra blocco occidentale e orientale è in pieno svolgimento. Il rischio di una terza guerra mondiale fu paventato a più riprese e la denuncia ideologica reciproca non andava certo per il sottile. Per gli americani, i comunisti erano senza dubbio alcuno i bad guys, la fonte di male nel mondo. Nonostante questo, nessuno si sognò di condannare l’intervista di Lippmann. Anzi, fu talmente apprezzata da ottenere nel 1962 un premio Pulitzer. E, considerata la statura di Lippmann nel discorso pubblico americano, non è difficile immaginare che quell’intervista influenzò l’amministrazione americana nelle proprie decisioni internazionali.

Insomma, nel 1961, a metà strada tra l’ultimatum di Berlino e la crisi missilistica di Cuba, negli Stati Uniti nessuno metteva in dubbio l’opportunità di meglio comprendere il pensiero dell’antagonista. Pur considerando le dovute differenze, è questa opportunità che viene negata oggi sia da chi condanna l’intervista a Lavrov tout court, sia da chi ne considera irrilevante il contenuto, se non per confermare la giustezza delle nostre (occidentali) posizioni.

Cosa è cambiato da allora? Verrebbe da pensare che sia la coscienza della storia che ci è venuta a mancare. Nonostante la gravità del conflitto ideologico e geopolitico che divideva e opponeva USA e URSS negli anni ’50 e ’60, la leadership americana era ben cosciente che la storia non si fa mai da soli. Tant’è vero che l’intervista di Lippmann non fu l’unica del periodo e che addirittura l’allora vice-presidente Richard Nixon tenne nel ’59 un dibattito acceso ma cordiale con Krusciov, passato alla storia come ‘Kitchen Debate’.

Di fronte alla guerra in Ucraina, invece, l’occidente pare avere deciso che l’avversario non è degno nemmeno di essere ascoltato. Forse gli ultimi trent’anni di post-storia ci hanno fatto dimenticare che il soggetto della storia è l’umanità intera e non solo la parte che consideriamo moralmente proba e a noi vicina. Eppure, che la fine della storia sia finita non è più un’intuizione controversa – è perlopiù un banale adagio. Allora, è forse il caso che ci si torni a rammentare che la storia non la si fa da soli e che capire l’altro – fosse anche il “nemico” nel bel mezzo di una guerra – non significa sposarne le ragioni, ma è la premessa necessaria per risolvere i problemi del mondo. Quando viene a mancare la parola, e il tentativo di comprensione dell’avversario, d’altronde, rimane solo la forza.


* Ricercatore in filosofia politica alla KU Leuven

Comments

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Fabio Rontini
Sunday, 22 May 2022 19:40
O forse, all'epoca gli Stati Uniti se lo potevano permettere, così come potevano concedere che ci fossero stati neutrali in Europa, perchè sapevano di essere i più forti.

Mentre oggi Russia e Cina unite rappresentano una sfida molto più seria che allora.

Forse, eh.
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