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Dai 100 giorni di guerra alla guerra dei 100 mesi?

di Sergio Cararo

Dopo 100 giorni di guerra in Ucraina la domanda che tutti si pongono è: quando finirà? I più profondi ne aggiungono un’altra: come finirà?

Le due domande – e le relative risposte – sono strettamente intrecciate.

Da un lato si manifesta una spinta molto ampia a porre fine quanto prima al conflitto. Le conseguenze umane, sociali, economiche in Ucraina sono già devastanti, ma anche quelle sui paesi che – come l’Italia – hanno scelto di partecipare ad una “guerra per procura”, per conto della Nato e degli Usa, cominciano a farsi pesanti in termini politici ed economici.

Dall’altro è evidente che gli Usa e la Nato, in cui sono ancora primus inter pares, spingono per la prosecuzione della guerra. Il loro obiettivo dichiarato è quello di sconfiggere sul campo la Russia e determinare così un’onda lunga all’interno di quel paese che lo riporti allo stato di prostrazione degli anni Novanta.

Per gli Usa, dopo la costosissima Guerra Fredda, impedire la rinascita di potenze rivali è un obiettivo di sopravvivenza. Era scritto nero su bianco nei documenti dei neoncon statunitensi prima nel 1992 e poi in quello più famoso del 2000: il PNAC o Progetto per un Nuovo Secolo Americano. Devono affrontare strategicamente la Cina ed allora meglio impedire ogni ambizione della Russia.

A tale scopo hanno allargato la Nato a est ed ora sperano che tenere la Russia impegnata in una guerra, ormai non solo regionale, ne logori la tenuta interna, le risorse economiche e gli arsenali militari.

Al momento la guerra in Ucraina appare destinata a durare ancora molti mesi“, è la previsione del segretario di Stato americano, Antony Blinken, espressa in conferenza stampa congiunta con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.

Finché andrà avanti, vogliamo garantire che l’Ucraina abbia in mano ciò che le serve per difendersi e vogliamo assicurare che la Russia senta una forte pressione da più Paesi possibili per porre fine all’aggressione“.

A fargli da sponda è il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg secondo cui l’Occidente deve prepararsi a una “guerra di logoramento” in Ucraina, una guerra che avrà una “lunga durata”.

A tale scopo l’amministrazione Usa fornirà all’Ucraina i missili a lunga gittata e i sistemi per lanciarli, mascherandoli dietro limitazioni di lancio che non consentiranno di colpire l’interno della Russia. Una assicurazione piuttosto ridicola che ha visto l’immediata e inquietante risposta della Russia: “Mosca colpirà mortalmente i centri decisionali se Kiev utilizzerà le armi ricevute dagli Stati Uniti contro i territori russi” – ha affermato il vice capo del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa Dmitry Medvedev-

Se queste tipo di armi verranno utilizzate contro i territori russi – ha aggiunto – le forze armate del nostro Paese non avranno altra scelta che agire per sconfiggere i centri decisionali“.

Insomma, vista da Washington e dal comando Nato, questa guerra “deve” proseguire anche perché i risultati sul campo non appaiono quelli desiderati.

La cortina fumogena seminata in questi 100 giorni, non riesce a nascondere il fatto che le truppe russe e le milizie delle Repubbliche Popolari del Donbass abbiano conquistato i territori russofoni nel Sud e a Est, mentre è apparso chiaro – anche per ammissione di alcuni ufficiali ucraini – che l’attacco a Kiev e la famosa colonna dei mille veicoli fossero un diversivo per distogliere forze ucraine dagli altri fronti. Nè è possibile rimuovere ancora il fatto che la guerra in Ucraina sia in corso dal 2014, soprattutto nelle regioni del Donbass.

In queste condizioni la Russia non ha ancora interesse a negoziare mentre l’Ucraina viene spinta da Usa, Gran Bretagna, Polonia a non negoziare. La contraddizione evocata è quella della modifica dei confini e della cessione di territori come questione non negoziabile.

Eppure la Nato e i suoi sostenitori non possono non ricordare che alla Serbia nel 1999 fu imposto, con 78 giorni di bombardamenti, di modificare i propri confini e cedere il Kosovo; o che negli anni è stato consentito ad Israele di espandere costantemente i propri confini a danno dei palestinesi.

Per molti aspetti questa guerra è l’onda lunga di quella in Jugoslavia negli anni ’90, che ha ridisegnato i confini nell’area balcanica come prodromo di quello che si aveva in mente per la Russia postsovietica.

Ma questi scheletri nell’armadio spiegano perché in Italia, a cominciare da Draghi, hanno detto da subito che guardare al passato era “sbagliato e inutile” e occorreva guardare solo a quanto avevamo di fronte, cioè l’invasione russa dell’Ucraina.

Quelle soluzioni sono state sbandierate come dolorose ma necessarie in nome della “stabilità”, mentre tale scenario viene negato come soluzione per la guerra in Ucraina. Non solo. In ordine di grandezza la guerra in Ucraina porta con sé il rischio di una escalation assai più ampia, in cui il ricorso alle armi nucleari viene esorcizzato ma non rimosso.

Ogni volta che in questi 100 giorni si era aperto uno spiraglio negoziale, Usa, Gran Bretagna e Polonia hanno fatto saltare ogni possibilità, costringendo l’Ucraina a dissanguarsi sul fronte e nelle città bombardate. Chi parla di una “guerra per procura” ha decisamente ragioni da vendere; chi lo nega o è stolto o porta consapevolmente enormi responsabilità, e dunque mente.

In Italia queste sanguinose responsabilità le portano il governo Draghi e il Pd soprattutto, ma guai ad assolvere partiti di governo come M5S e Lega che si dichiarano per la pace davanti ai “microfonisti” nelle strade del centro di Roma, ma che in Parlamento hanno votato tutte le leggi di guerra, incluse le misure da economia di guerra, riducendo al silenzio ed espellendo i dissidenti dalle proprie file.

Eppure il sentimento popolare che chiede la fine della guerra – o ancora meglio, la fine del coinvolgimento italiano nella guerra – è ampiamente maggioritario, ma senza rappresentanza politica o voce in capitolo quando si tratta di provvedimenti concreti in Parlamento o nelle Commissioni.

Nonostante un vergognoso bombardamento mediatico – non nuovo, per la verità – a sostegno dell’interventismo militare e delle sanzioni contro la Russia, la maggioranza della società non si è piegata ed ovunque ne ha avuto la possibilità lo ha esplicitato, talvolta in un sondaggio, altre volte – ancora poche – nelle manifestazioni contro la guerra.

La popolazione italiana è bendisposta verso le sofferenze della popolazione ucraina, ma non è disposta a “morire per Kiev”, né sul fronte militare né su quello interno, che vede addensarsi mesi di sacrifici e peggioramento delle condizioni di vita, sia a causa delle sanzioni alla Russia (che tornano indietro come un boomerang), sia a causa delle conseguenze generali della guerra sull’economia. Sente questo interventismo italiano nella guerra in Ucraina come estraneo, incomprensibile, pericoloso.

Dopo 100 giorni di guerra si avverte stanchezza, incertezza, preoccupazione e rabbia. Gli Usa e la Nato ci dicono che dovrà essere ancora lunga.

Il governo Draghi e l’Unione Europea per ora gli vanno dietro ma sono l’anello debole, ed è su questo che occorre martellare come fabbri per spezzare la catena che ci porta alla guerra.

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