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L’estradizione di Assange è una vergogna per le democrazie e una minaccia per tutti noi

di Valeria Casolaro

La libertà di informazione costituisce uno dei diritti fondamentali sui quali si basano i nostri valori occidentali. Ma chi ne definisce i termini? Quando qualcuno stabilisce di cosa si può parlare, di cosa si può essere informati e di cosa no, allora è ancora informazione? Esiste ancora libertà?

La vicenda di Assange non può non portare a interrogarsi su tutto questo. Anche perché la sua condanna costituisce un pericoloso precedente per tutti i professionisti del mestiere. Sancisce, una volta per tutte, che la verità può essere raccontata solamente se i poteri forti, i governi che decidono le sorti del mondo, ne ammettono la legittimità. Se no si rischia l’ergastolo, se non anche la pena di morte. La stessa Amnesty mette in guardia da questa possibilità, ovvero “la deriva intrapresa dagli USA di processare per spionaggio chi pubblica informazioni”, che passa per la pretesa che “gli Stati, come in questo caso il Regno Unito, estradino persone che hanno diffuso informazioni riservate di interesse pubblico”, fattore che rappresenta “un pericoloso precedente che deve essere respinto”.

Le condizioni all’interno delle carceri degli Stati Uniti sollevano da tempo perplessità. Le rassicurazioni che Assange non subirà tortura al loro interno sono, per la vicedirettrice delle ricerche sull’Europa Julie Hall, “del tutto infondate”. “L’isolamento prolungato è una caratteristica principale della vita di molti detenuti nelle prigioni di massima sicurezza degli Usa. Per il diritto internazionale equivale alla tortura. Il divieto di tortura è assoluto e le vane promesse di un equo trattamento di Assange da parte degli USA costituiscono una minaccia a tale divieto”. È la stessa Amnesty, d’altronde, che ha definito il processo nei confronti di Assange una “parodia della giustizia”.

Le rassicurazioni statunitensi sono carta straccia soprattutto a fronte di quanto emerso dall’inchiesta che ha mostrato come gli Stati Uniti progettassero l’interdizione delle attività di Assange ad ogni costo, compreso tramite il rapimento e l’omicidio, anche per avvelenamento, quando si trovava nell’ambasciata ecuadoriana.

Julian Assange è un giornalista australiano che nel 2006, insieme ad altri attivisti, fonda il sito WikiLeaks, dove vengono raccolti i documenti comprovanti le attività criminali e non etiche dei governi. L’attività del sito non risparmia nessuno, documentando la corruzione dei potenti dallo Yemen alla Cina, dal mondo arabo all’Africa. Tuttavia, quando a essere preso di mira è il governo statunitense, il vento cambia improvvisamente. Il 5 aprile 2010 sul sito appare un video, divenuto poi noto col nome di Collateral Murder, che riporta la strage di decine di civili nella sobborgo di New Baghdad, in Iraq. Tra le vittime vi sono anche due giornalisti dell’agenzia di informazione Reuters. Le immagini suscitano parecchio scalpore e WikiLeaks diviene improvvisamente nota in tutto il mondo. A distanza di pochi mesi, Chelsea Manning, ex militare statunitense ed informatrice di WikiLeaks, viene arrestata per la diffusione di materiale classificato reso pubblico dal sito. Da lì inizierà la persecuzione di Assange, una lunga storia di accanimento e “parodia della giustizia”, che non ha precedenti nella storia dell’informazione.

Per questo, la notizia della sua definitiva estradizione non può non suscitare una profonda preoccupazione. L’accanimento nei suoi confronti costituisce un attacco diretto a tutti i valori dei quali gli stessi governi che lo hanno imprigionato issano la bandiera, svelandone l’ipocrisia e la falsità. La vicenda di Assange tocca noi tutti in prima persona. Rimanere in silenzio di fronte a quanto accaduto significa vestirsi di complice indifferenza.

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