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Jameson legge Benjamin

di Giorgio Mascitelli

Non vorrei essere nei panni del recensore del Dossier Benjamin di Fredric Jameson ( trad.it di Flavia Gasperetti, a cura di Massimo Palma, Treccani, Roma, 2022, euro 26) perché sono tali e tanti gli stimoli che questo libro contiene che renderne conto, anche solo per sommi capi, nel breve spazio di una recensione è fatica improba. Eppure è possibile riassumere in maniera immediata il motivo per cui esso è di grande interesse anche per i non specialisti: infatti, sebbene non abbia senso indicare per un autore così poliedrico e improvviso quale Benjamin un erede spirituale, individuale o collettivo, ma tutt’al più una serie di snodi decisivi che sono stati sviluppati e talvolta pienamente compresi solo nelle epoche successive, bisogna indicare in Jameson colui che ha proseguito lo sviluppo di uno dei nodi più importanti. Alludo alla riflessione sugli stretti rapporti che intercorrono tra forme della cultura e dell’arte e quelle dell’esperienza sociale delle rispettive contemporaneità, la tarda modernità per il tedesco e la postmodernità per lo statunitense, colti in una prospettiva analitica e straniante, che potremmo definire al contempo materialista e inattuale.

Il sintomo più eloquente di questa affinità tra i due è la libertà quasi iconoclasta di giudizio con cui Jameson tratta alcune delle opere più acclamate di Benjamin. Per soffermarsi sul discorso, a parer mio, più importante per un operatore culturale e per un artista del XXI secolo, vale la pena di ricordare il giudizio di Jameson su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo il quale questo testo non ha un vero oggetto né una tesi centrale, quanto piuttosto ‘una serie di temi il cui centro di gravità non fa che oscillare di sezione in sezione’ ( pp.276-77), addirittura tale saggio andrebbe letto come un seguito della meno nota e più settoriale Breve storia della fotografia.

Alla base di queste oscillazioni starebbero lo stesso concetto di aura, che a parere di Jameson indicherebbe da un lato la bellezza, la pura contemplazione estetica, e dall’altro un’esperienza altamente mobile e completamente individuale, e in particolare il vano tentativo benjaminiano di fissarlo entro una categoria astratta coerente ( p.295). Non che in passato siano mancate le critiche anche autorevoli a questo concetto ( per esempio Adorno o Brecht), ma qui Jameson sembra sottolineare i limiti intrinseci ( e al contempo la sua irrinunciabilità) di un termine che aspirerebbe a tradurre in termini sociologici e percettivi un’esperienza estetica che sembra essere apparentata con la dimensione del sublime. L’aura appare il portato di un’esperienza individuale connessa con il sorgere tra il Seicento e il Settecento, a cominciare dalla Francia, dell’idea del buon gusto estetico, che entrerebbe in crisi con l’apparizione delle possibilità di riproducibilità tecnica dell’opera. Giova ricordare che non è la possibilità tecnica in sé, ma i rapporti di produzione entro cui questa opera che determinano la fine dell’aura. Il gusto, per quanto ragione di vita per alcuni di noi, non è per niente più definibile dell’aura in una maniera astratta entro una dottrina estetica, ma è una singolarità storica del tutto congiunturale. Non è forse un caso che Jameson spenda alcune pagine nel VI capitolo per descrivere il debito di Benjamin verso Riegl, che con il concetto di Kunstwollen ha messo in primo piano la possibilità di un giudizio estetico radicalmente storicistico.

La perdita dell’aura in Benjamin non è connotata come inestimabile, nel senso di una nostalgia alla francofortese di un rapporto di fruizione con l’opera d’arte presentato come ideale e assoluto, nonostante sia a sua volta nato in un momento storicamente dato, ma semplicemente come una trasformazione sia tecnologica sia sociale del rapporto di fruizione, che si incrocia pericolosamente con l’ascesa del fascismo e con la sua tendenza all’estetizzazione della politica. Il limite di Benjamin, secondo Jameson, si deve scorgere nel fatto che lo sforzo di collocare il fenomeno della perdita dell’aura entro quelli che sono i rapporti di produzione della società capitalistica produce un cortocircuito perché questo materialismo rigoroso tende a considerarli in maniera troppo statica, non tenendo conto dell’innovatività della tecnologia anche verso direzioni imprevedibili. ( p.334)

In realtà, secondo lo studioso americano, Benjamin in un altro saggio, L’autore come produttore, individua una nozione di tecnica più interessante: sebbene essa non coincida con la tecnologia, ma piuttosto con le pratiche dell’avanguardia, come per esempio il ready made dadaista, essa avrebbe la funzione rivoluzionaria di far uscire l’autore dal paradosso della letteratura impegnata, la cui forma contrasta con il contenuto di denuncia sociale perché la colloca ancora dentro le istituzioni borghesi. In questo caso la tecnica è l’elemento concreto di rottura e di differenziazione che svolge una funzione positiva. Da qui è possibile cogliere un aspetto centrale e fertile e attuale del pensiero benjaminiano ovvero la distinzione tra il progresso, concetto inutile che consiste nel prospettarsi un futuro a immagine e somiglianza delle proprie illusioni storiche o se si preferisce della propria filosofia della storia, e il nuovo che non è nient’altro che il punto di rottura del presente ‘così travolgente da far svanire qualsiasi vaga idea del futuro come le profezie di un mago’ ( p.330). Per Jameson, insomma, la tecnica così intesa può essere strumento di rottura e dell’esperienza del nuovo.

La lettura di Jameson tende in questo modo, da un lato, a staccare definitivamente Benjamin da qualsiasi critica francofortese all’industria culturale, e successive evoluzioni, per esempio la società dello spettacolo debordiana, e dall’altro nel farlo diventare un teorico dell’avanguardia come pratica rivoluzionaria e non solo meramente estetica. Non spetta a me discutere la pertinenza filologica di una simile lettura ( perdipiù relativa a un autore per cui la frammentarietà è una cifra epistemologica ed estetica del proprio discorso), dico solo che questa lettura mette Benjamin strettamente in contatto, sia come sale sulle ferite sia come caffeina, con le contraddizioni del nostro tempo e a questo livello il testo deve essere discusso.

Jameson individua tre circostanze in cui l’aura risorge nella contemporaneità a dispetto di ogni riproducibilità tecnica, anzi grazie a essa. La prima ha a che fare con quella che l’autore chiama l’Erfahrung televisiva collettiva, in cui in occasione di certi eventi, come nel caso dell’omicidio Kennedy, vi è una partecipazione del pubblico che non può essere ridotta a pura passività; il secondo è il lavoro informatico dei programmatori e degli hacker, che ha una sua dimensione di artigianalità; infine le nuove forme televisive delle serie sembrano favorire una nuova forma di hic et nunc che avrebbe una sua dimensione auratica. Innanzi tutto di queste proposte colpisce che due su tre riguardino ambiti non immediatamente estetici, segno che un’estetizzazione diffusa è ormai trionfante. Ora, per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse. E del resto lo stesso Benjamin nei citati anni Trenta si trovò nelle condizioni di dover denunciare il ruolo di Marinetti, che, quanto a maestro di nuove tecniche, non fu certo inferiore ai dadaisti e ai surrealisti.

Se confrontiamo questo approccio jamesoniano con quello situazionista, cioè di quell’avanguardia che più sistematicamente ha coltivato quell’idea, e quella prassi, di stretto rapporto tra attività estetica e rivoluzionaria, ciò che colpisce è che in Debord lo spettacolo, il televisivo e forse il visuale in generale sono momenti del falso, di una forma di alienazione della coscienza umana che viene sottomessa dal feticismo delle merci, di cui lo spettacolo è la forma concreta e percepibile, mentre Jameson, pur consapevole di tutti questi elementi, sottolinea gli effetti imprevedibili di pratiche e tecniche magari nate per quelle finalità che i situazionisti denunciavano. Anzi, riconoscendo che la nozione di spettacolo è in qualche modo erede della riflessione benjaminiana sulla fantasmagoria delle merci ( p.245), Jameson tende ad attribuire un aspetto positivo al visuale in Debord, per cui almeno marginalmente la contemplazione avrebbe un effetto di conoscenza e di azione. Qui forse Jameson non tiene sufficientemente in considerazione che nell’autore francese l’azione è sempre azione di un’avanguardia, politica e artistica, che ha caratteri di superiore consapevolezza teorica. Ciononostante bisogna ammettere che la posizione di Jameson è dialetticamente più dinamica e vitale, ma a patto di riconoscere che l’esperienza del nuovo non è destinata di per sé a produrre nessuna dinamica positiva. Per esempio la forma di fruizione delle serie televisive non sembra affatto aver prodotto nuove forme di consapevolezza, abbiamo al contrario una fruizione che ha favorito nuove forme di conformismo ideologico, sia pure progressista, e nella quale l’hic et nunc si traduce in un senso di appartenenza a un club esclusivo di raffinati spettatori di opere cult, secondo i dettami di quel fenomeno postmoderno che è il camp.

Sembra insomma che la lettura di Jameson, in un’opera peraltro assolutamente importante e densa di stimoli, trovi il suo punto di arrivo in una considerazione delle possibilità dinamiche della tecnica come automaticamente e/o tendenzialmente liberatorie. Vale allora la pena di ricordare che lo stesso Benjamin dell’Autore come produttore trova la possibilità di una dinamica positiva della tecnica in una presa di coscienza della posizione sociale dell’artista nella società che quindi attua consapevolmente la sua azione artistica. Si tratta cioè di un’azione volontaria o militante, se si preferisce, che può trasformare le situazioni create dalla tecnica in qualcosa di imprevedibile al di fuori delle dinamiche sociali vigenti. In altri termini la questione è quella di non affidare alla tecnica un ruolo salvifico oggettivo, prova ne sia che le tecniche dadaiste e surrealiste hanno avuto un significato rivoluzionario laddove gli artisti che le realizzavano erano legati a un’idea e a un prassi di trasformazione sociale, ma usate per esempio poi nella pubblicità hanno perso ogni significato del genere.

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