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lafionda

Governo Draghi, noi costruiti per fare

di Salvatore Bianco

«Questo governo è costruito per fare» è l’ultimo in ordine di tempo laconico messaggio nella bottiglia affidato dal governo alle onde mediatiche. Fare che cosa non è dato sapere, d’altronde il governo del fare era lo slogan che ha accompagnato la lunga sciagurata stagione berlusconiana. Il fare è dunque paradigmatico di un’epoca che non ne vuol sapere di tramontare, anzi che nell’ attualità continua ad imperversare. Nello specifico è il sintomo di una inversione, oramai introiettato come senso comune ed abitudine, tra politica ed economia.

Il fare è sempre procedurale, ha a che fare coi mezzi, mentre solo la prassi, l’agire propriamente politico, è finalistica. La prassi, spiegava Aristotele, punta a modificare le condotte rendendole meno asociali, non più rispondenti alle necessità della crematistica, della ricchezza fine a se stessa. E qui ci viene in soccorso il maestro di Aristotele, Platone che nel suo dialogo di commiato il Politico definisce la politica «tecnica regia» (basiliké téchne). E questo perché mentre i saperi banausici si limitano al come si fanno le cose, per l’appunto il fare, la politica si domanda se quelle cose devono essere fatte e soprattutto perché.

È contenuta in questa definizione una dimensione del decidere consustanziale alla politica, che è sempre un traumatico taglio e che al fare tecnico, in questi termini, è risparmiato. Certo, è una decisione che al tempo di Platone si prende su di un pieno di essere quale la natura come grande macrocosmo, che la modernità ha dapprima disarticolato e poi definitivamente disperso. Ovviamente anche Platone ha fatto esperienza dell’ingiustizia a partire dalla messa a morte del suo amato maestro Socrate sottoposto per giunta ad un regolare processo.

Per ritornare all’oggi, il fare procedurale privo com’è di finalità intrinseche è trainato dal solo scopo che oramai plasma la totalità sociale in tutte le sue dimensioni, il fare della «valorizzazione illimitata del valore», letteralmente il fare soldi. È forse per un pudore inconfessato in ossequio allo «spirito meridiano» (L. Bruni) che si lascia tronca l’espressione: il governo del fare, costruiti per fare.

Non è corretto concludere che noi saremmo la società del nulla, perché essendo animali simbolici per eccellenza, specie in occidente, una qualche etica di comunità sia pure irriflessa ed automatica risulta comunque indispensabile non avendo istinti forti come bussola. Ebbene, la nostra ha assunto all’ingrosso il denaro come generatore simbolico universale di buona parte delle nostre azioni e dei criteri delle nostre condotte.

Apparentemente paiono non esserci i margini per una inversione di rotta. Il fatto è che l’homo occidentalis sta pagando a caro prezzo l’aver rinunciato alla politica, con le caratteristiche sopra indicate. Gli squilibri ed i disordini hanno preso il sopravvento e le comunità di cui si compone questo eccentrico spazio di civiltà sono sempre più esposte a venti di crisi e conseguenti risentimenti, che rischiano di condurre ad una torsione sempre più apertamente autoritaria.

«La storia è maestra, ma non ha scolari», diceva Gramsci, che poco più sotto ammoniva: «Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla». Ed effettivamente pare proprio che il primo ciclo di globalizzazione sfociato nella Grande guerra non abbia insegnato nulla. È probabile che il travaglio del negativo continui e forse si aggraverà ulteriormente. Ma la fiducia nel lungo periodo si nutre di un’antropologia filosofica dell’essere umano come libertà, che declinato nel concreto significa un con-essere storico di possibilità. La sua cifra ultima non potrà mai essere una vita da pecora o da lupo per sempre, piuttosto quella di abitare alla lunga un mondo che riconosce a grandi linee come suo, costruito consapevolmente a sua immagine ovvero a sua volta libero. È questa la fede filosofica che ci deve animare per resistere e contrastare, col pensiero critico, lo stato di cose esistente e il mainstream che lo traduce in dominio simbolico.

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