Il mondo cambia e si prepara la guerra
di Antiper
La crescita del PIL [1] ovvero della ricchezza prodotta da un paese (o da un gruppo di paesi) non è certo un indicatore della “felicità” delle persone dal momento che tale ricchezza può essere (e in effetti è) redistribuita in modo fortemente diseguale. Per fare un esempio del livello di disuguaglianza del reddito che riguarda le due principali economie mondiali – USA e Cina – possiamo prendere a riferimento il relativo coefficiente di Gini [2]
Si vede subito che negli Stati Uniti la disuguaglianza nella redistribuzione del reddito è aumentata – lentamente, ma in modo abbastanza sistematico – fin dalla metà degli anni ‘70.
In Cina, ad una prima fase caratterizzata dal denghiano “arricchitevi!” in cui il coefficiente di Gini è balzato a livelli altissimi (è la fase in cui il grande sviluppo dell’economia privata cinese ha prodotto molti ultra-miliardari) è seguita una drastica inversione di tendenza dal 2010 con il coefficiente che sta scendendo fin quasi ai livelli della fine degli anni ‘70 (ma in un quadro economico completamente diverso).
La crescita del PIL è considerata, in genere, un indicatore dello stato di salute dell’economia di un paese o di un’area. Mettendo a confronto la crescita del PIL tra il 1980 e il 2022 (con una proiezione fino al 2027) tra Cina, mercati emergenti e paesi in via di sviluppo (a livello globale), le economie più avanzate, gli USA e il mondo nel suo complesso otteniamo una carta di questo tipo.
Quali considerazioni possiamo trarre [3]? La più evidente sembra essere quella che il mondo nel suo complesso, le economie emergenti in particolare e la Cina ancora più chiaramente hanno mostrato – almeno dal 2000 in poi – performance nettamente superiori a quelle delle economie cosiddette “avanzate” e degli Stati Uniti. La Cina, poi, svetta su tutti con livelli di crescita del PIL stratosferici rispetto a quelli “occidentali”.
Questo vuol dire una cosa ben precisa ovvero che la crisi dell’Occidente non è solo una crisi di valori come pensano i liberali “di sinistra”, ma è soprattutto una crisi di valore e che la realtà globale sta delineando un tipo di evoluzione che possiamo riassumere nel definitivo tramonto della leadership americana.
Questa sarebbe una buona notizia se gli USA e i loro alleati – diciamo, la “NATO 2.0” [4] allargata a paesi lontanissimi dall’Atlantico come Giappone o Australia – fossero disposti ad accettare l’emersione di un nuovo ordine geopolitico multipolare senza reagire in modo violento. Invece, sono almeno 30 anni che la NATO ricorre sistematicamente alla provocazione e alla guerra in ogni parte del pianeta (e specialmente nelle aree più rilevanti dal punto di vista energetico e strategico [5]) per cercare di evitare il funesto esito della rinuncia al dominio globale.
La NATO 2.0 è consapevole che in capo ad alcuni anni svanirà anche quella supremazia militare e tecnologica che oggi è ancora convinta di possedere e per questa ragione è intenzionata a spendere ora le proprie cartucce. Non esita dunque a lanciare continue provocazioni verso altri paesi – principalmente Russia e Cina – e ad intervenire con ogni mezzo nelle province dell’impero amerikano e al di fuori di esso…
E siccome questo ricorso sistematico alla forza crescerà la NATO 2.0 prepara il consenso interno esplicitando il proprio carattere offensivo, sancito nel nuovo “concetto strategico” [6], perché la guerra non si prepara solo con il riarmo bellico, ma anche e soprattutto con la militarizzazione delle masse che devono avere ben chiaro una cosa: se si vuole conservare un certo tenore di vita – quelli che vengono chiamati “i nostri valori” – bisogna fare delle scelte drastiche: decine di milioni di morti e centinaia di milioni di sfollati sono un prezzo che si deve essere disposti a (far) pagare.
Add comment