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lafionda 

Bilancio commerciale della Russia: disastro occidentale ma vittoria di Pirro per Mosca?

di Matteo Bortolon

Una mezza vittoria è una mezza sconfitta.
(Principessa Leila Organa, Star Wars)

Com’è noto, il sostegno del blocco euroatlantico all’Ucraina contro la Federazione Russa si è concretizzato con aiuti finanziari e invio di armi a Kiev, escludendo il diretto coinvolgimento di soldati regolari occidentali nello scontro.

A quattro mesi dall’inizio dell’invasione, mentre la situazione militare si trascina con uno sguardo sempre meno attento dei media occidentali, pare arrivare ad un punto di svolta la guerra parallela intrapresa da Ue e Usa verso Mosca: quella delle sanzioni.

L’obiettivo era di isolare il paese, sebbene la necessità politica abbia indotto a non farlo completamente per via del flusso di materie prime energetiche così vitale per le economie europee; al di fuori di tale settore Mosca ha subito un embargo molto stretto con l’esclusione dal sistema di comunicazione per i flussi finanziari (SWIFT) ed il congelamento delle riserve di valuta russe detenute da paesi occidentali.

Tali politiche pretendevano di avere un risultato devastante sull’economia russa – come hanno affermato in modo veramente sopra le righe tanto le autorità britanniche che francesi. In realtà accelerando ed amplificando la crescita dei prezzi di petrolio, gas ed altre materie prime esse hanno pesantemente danneggiato le economie ed i cittadini occidentali. Abbiamo già visto come la Germania veda un deficit commerciale per la prima volta trent’anni.

E non è un dato sorprendete: già dall’indomani della guerra a seguito di una calo della produzione industriale, come riporta Bloomberg, i consulenti di Berlino avevano abbassato le previsioni di crescita del pil all’1,8% dal 4,6% di quest’anno, avvertendo che una recessione sarebbe stata possibile a causa dell’elevata dipendenza del paese dall’energia russa. Nella primavera, a mano a mano che le cancellerie europee dispiegavano vari pacchetti di sanzioni antirusse – seguendo con scodinzolante deferenza l’attitudine sempre più aggressiva dell’amministrazione Biden, dopo una prudenza iniziale – si moltiplicavano i segnali che il disastro si andava addensando sulle teste degli europei, ed in particolare della più forte economia, quella tedesca. A inizio marzo La VDMA (Verband Deutscher Maschinen- und Anlagenbau e.V.), l’associazione dell’industria meccanica tedesca, tagliava le previsioni di crescita della produzione di macchinari per il 2022 per la perdita del mercato russo; Yasmin Fahimi, della federazione dei sindacati tedeschi diceva a Bloomberg che il taglio delle forniture di gas russe avrebbe fatto collassare interi comparti industriali: alluminio, vetro, chimica, con ripercussioni a cascata sul resto dell’apparato produttivo; il Wall Street Journal rendeva noto che l’azienda chimica BASF in Germania – il più grande complesso chimico integrato del mondo che comprende circa 200 stabilimenti – avrebbe potuto fermarsi a causa dell’aumento dei prezzi del gas, con i dirigenti costretti a contemplare la possibile chiusura del complesso. Ed infatti uno studio dell’economista Tom Krebbs di Mannheim calcolava che una interruzione improvvisa degli approvvigionamenti russi potrebbe causare una riduzione del pil fino a -12%. Si vede come il deficit commerciale costituisca il vertice di un infelice crescendo di segnali negativi, riconducibili al fatto che la maggior economia dell’Unione – e baricentro politico della stessa – sconti da un lato il proprio esasperato neomercantilismo da economia estroflessa all’export; dall’altro una sua scarsa autonomia geopolitica rispetto agli Usa, la cui postura antirussa – superata solo dal Regno Unito – è evidentemente contraddittoria rispetto agli interessi dei paesi più legati all’import di gas. La cronaca attuale, che vede un taglio significativo della fornitura russa alla Germania, parla di razionamenti e crisi energetica; la notizia di stampa secondo la quale fra i vari scenari delineati dagli esperti del cancelliere Scholz nessuno suggerisce che sia possibile accumulare abbastanza gas per l’inverno pare la bandierina di una vera a propria Caporetto sulle strategie europee.

Parallelamente si andavano accumulando notizie sul fatto che la Russia godeva di una bilancia commerciale quanto mai favorevole. Non è un dato particolarmente misterioso che la sua economia si fondi sull’esportazione di materie prime, come schematicamente riportano le statistiche del WTO per i relativi settori:

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Non è quindi troppo sorprendente che l’aumento dei prezzi di materie energetiche abbia lanciato una ciambella di salvataggio a Mosca, costellando i notiziari di fatti economici che i media mainstream non paiono particolarmente ansiosi di dare:

  • ad aprile il centro di studi finlandese CREA ha calcolato che Mosca ha esportato nei primi due mesi di guerra 58 mld € di materie prime, di cui il 70% alla Ue.
  • a maggio l’Economist citava i dati dell’Institute of International Finance, secondo cui i proventi delle esportazioni russe negli ultimi tre mesi sarebbero stati 65% superiori rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
  • a giugno Bloomberg calcolava che nel 2022 la Russia avrebbe incassato per le stesse commodities circa 285 mld €, il che pareggerebbe quasi la quantità delle riserve “congelate” dagli Stati occidentali – e anzi mettendo in conto altre materie prime la supererebbe.;
  • la stessa Bloomberg stima che la vendita di petrolio russo sarebbe aumentato nel 2022 del 50%, citando un rapporto della Agenzia Internazionale per l’Energia secondo cui il guadagno sarebbe di circa 20 mld $ al mese.

Oggi, avendo scavallato il primo semestre dell’anno, è possibile verificare i dati con le più aggiornate cifre della Banca Centrale di Russia. Le seguenti.

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Cosa ci dicono queste cifre?

Va specificato che il saldo totale è più basso, in specie di circa 20 mld $ perché il paese è in passivo per una voce che racchiude dei flussi finanziari, così che il conteggio finale in realtà è un positivo di +138, 5 mld. Ma essendo tale dato invariato rispetto al 2021 (sempre circa 20 mld $ di deficit di flussi finanziari) è nella bilancia commerciale di beni e servizi che va concentrata l’attenzione.

È stato spesso scritto che il saldo commerciale è una misura ingannevole perché può consistere di un calo consistente dell’import – per esempio se la popolazione si impoverisce e quindi compra meno prodotti di derivazione estera. Ed è vero. Come si vede l’import russo è calato ma non molto, di circa 11 mld, mentre l’export è aumentato di ben 86 mld. Come già indicato, la maggior parte di esso consiste di materie prime. Quindi tale critica pare avere poco fondamento.

Naturalmente la diminuzione di importazione non è dovuta ad una recessione interna ma dalle sanzioni senza precedenti che abbiamo già evocato. Ma se vediamo i maggiori partner commerciali, a parte l’Ue, solo la Corea del Sud ha approvato sanzioni – oltre al Giappone fra gli importatori; Cina, Bielorussia e Turchia non lo hanno fatto, e così buona parte degli altri.

Insomma, sulla base di tali dati il sistema sanzionatorio parrebbe un insuccesso clamoroso quanto autolesionistico, e si giustificherebbe l’affermazione della vittoria del presidente Putin. Ed in parte indubbiamente è così. Ma non tutto va a favore di Mosca.

Prima di tutto una botta considerevole del pil ci sarà quasi sicuramente, anche se la Banca di Russia ha rivisto le stime in senso più ottimistico: adesso ci si aspetta una crescita di -7,5%, sempre un crollo rilevante.

Un dato forse più preoccupante è quello riguardante la diminuzione della produzione industriale che parrebbe essere in territorio negativo (-1,6% e – 1,7% rispetto a +8,6 a gennaio 2022). Come tutte le dinamiche macroeconomiche una performance negativa non è grave a meno che non rappresenti un trend di più ampia durata. E c’è un motivo per ritenerlo, accennato dallo stesso Putin al Forum di San Pietroburgo: le aziende russe non hanno più accesso alle tecnologie occidentali. Se tale fattore non viene compensato o aggirato può portare ad una stagnazione della crescita della produttività molto dannosa.

Questo porta al terzo problema. Molto si è detto sul possibile sganciamento della Russia dall’Occidente per legarsi ad altre potenze in ascesa, in particolare alla Cina. Quest’ultima è diventata il primo partner commerciale di Mosca (considerando i singoli Stati europei, altrimenti l’Ue sarebbe il primo), che senz’altro può fornire tutti i prodotti che per effetto delle sanzioni non arriveranno più dal blocco euroatlantico ed alleati, ma ulteriori invasioni di prodotti cinesi, se combinati con un cambio sfavorevole (il rublo è fortissimo attualmente), darebbero un ulteriore colpo alla base industriale interna a favore di prodotti esteri a basso costo.

In altri termini, affidarsi totalmente all’export di materie prime con una deindustrializzazione spinta è una debolezza assai significativa; paesi come il Venezuela di Chavez hanno pagato caro tale errore. Al momento il surplus commerciale russo è enorme, ma i prezzi delle materie prime sono molto altalenanti vista la componente speculativa-finanziaria che presiede alla loro volatilità. Da un giorno all’altro la Federazione Russa potrebbe trovarsi in condizione di grande vulnerabilità. Una rete di alleanze commerciali con altri paesi può essere funzionale a costruire un’economia più prospera ma a condizione che venga perseguita una oculata e mirata strategia di sviluppo interno che comporti investimenti interni, aumento della produttività, una base industriale e una domanda interna di livello.

Insomma, le politiche euroatlantiche stanno mostrando una disfunzionalità disastrosa, ma il fatto che non riescano a distruggere la Russia oggi può essere per essa la proverbiale vittoria di Pirro se Mosca non persegue saldi obiettivi di sviluppo economico in base ai quali calibrare il riorientamento strategico derivante dallo “sganciamento” dal mondo euroatlantico.

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