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Dalla crisi di governo alla crisi di “governabilità”

di Giacomo Marchetti

La precipitazione della crisi politica in Italia fa emergere con tutta evidenza come sia diventata ormai cronica l’incapacità di governance del complesso delle contraddizioni prodotte dal modo di produzione capitalista.

Se ci sono alcune caratteristiche specifiche del nostro Paese, il dato è generale e riguarda tutta la classe politica prodotta in Occidente dal mondo “unipolare”, i sistemi di rappresentanza (e non solo le formazioni politiche) che l’hanno governato, la visione del mondo subordinata al capitalismo neo-liberista e all’imperialismo euro-atlantico, con le relazioni sviluppate dentro cornici ormai svuotate di senso.

Con un gioco di parole potremmo dire che è entrata in crisi proprio la crisis management, ovvero l’”approccio gestionale” con cui la trama di poteri che ha sin qui storicamente dominato sta affrontando da 15 anni circa la ricca fenomenologia di emergenze prodotte dai corto-circuiti sistemici di un mondo al tramonto.

Ripetiamo: è un mondo al tramonto, e la sua classe politica non può che essere crepuscolare, di basso livello, in panne. Non è riciclabile, va sostituita e basta, così come il sistema che l’ha prodotta.

L’Occidente non sembra avere alcuna ricetta per risolvere le storture sistemiche che si vanno sommando come un intero stormo di cigni neri che si profila all’orizzonte: tendenza alla guerra sempre più visibile, stagflazione, collasso climatico, impoverimento crescente…

Vi è stato un periodo, in realtà durato non più di un quarto di secolo, in cui le crisi sembravano non lambire i perimetri del nostro mondo, né intaccare sostanzialmente il nostro modo di vita, con il sistema neoliberista occidentale abile a nascondere la polvere sotto il tappeto, come in una sorta di sindrome da Belle Epoque.

Da qualche anno a qualche parte i fatti hanno smentito questo “credo” in maniera abbastanza impietosa: la pandemia, tutto meno che risolta, la fuga dell’Occidente dall’Afghanistan, l’escalation della guerra in Ucraina, ed una crisi climatica dai toni ormai abbastanza apocalittici anche nel Vecchio Continente.

La cittadella imperialista ha perso molto di quell’alone di “superiorità” di fronte agli attuali sconquassi, anche se rimane il nocciolo duro ideologico delle nostre classi dirigenti e la forma mentis che rende inconcepibile ogni cambiamento, specie se radicale.

L’ormai ex presidente del Consiglio è frutto di questo mondo.

La filosofia dell’“output democracy” – privilegiare i criteri di efficienza, economicità e competenza a discapito di un maggior coinvolgimento dei cittadini (input democracy) -, propugnata da Draghi e da tutta una serie di replicanti della sua risma, esce con le ossa rotte, sia sul piano dei risultati concreti, sia come metodo di gestione della cosa pubblica.

La rigidità che ha dimostrato nel non voler in alcun modo “concertare” le scelte dell’esecutivo è il frutto dell’obbligatorietà del tracciato prescelto, dentro i perimetri imposti/accettati dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea.

I “politici” come lui possono bellamente fregarsene del livello di astensione rispetto alla partecipazione al voto, possono pensare che il consenso sia una variabile secondaria nei processi decisionali, ma alla fine i nodi vengono al pettine e la “bolla” scoppia, si liquefanno le certezze che sembravano granitiche e le narrazioni che sembravano egemoni.

Sono costretti a governare esplicitamente “contro il popolo”: un ossimoro che si può nascondere, ma non si può risolvere. E che non funziona più…

La verticale del potere di Draghi, che negli ultimi giorni aveva assunto una traiettoria iperbolica cercando di by-passare ulteriormente il sistema della rappresentanza politica parlamentare ed i partiti che, nel bene e nel male – più la seconda che la prima -, incarnano interessi specifici di una parte della popolazione, si è trasformata in una rovinosa caduta.

Questa sorta di “totalitarismo liberal-democratico” ha finora macinato tutti coloro che l’hanno praticato (Mario Monti è stato il primo), e non c’è alcun segno di inversione di tendenza, perché dentro questo quadro non sono previste strategie differenti, ma solo “una dose maggiore della stessa droga”.

Per l’Italia e la sua popolazione, dunque, il quadro non è affatto roseo, anche perché la rigidità – il “pilota automatico” – della gabbia europea ed i vincoli del Patto Atlantico detteranno comunque le loro condizioni qualunque esecutivo entrerà in carica. A meno che questo non decida di cambiare le regole del gioco, ma per questo ci vuole una ipotesi di rottura reale, e non le chiacchiere della destra.

«Al Paese aiutato» scrive Isabella Bufacchi sul Sole24Ore di mercoledì 20 luglio. «verrebbe richiesto di rispettare i vincoli del Patto di Stabilità (anche se ora in crisi il Patto è sospeso) e non sarà protetto dallo scudo chi entrerà in una procedura di infrazione per deficit eccessivo. Altro requisito del meccanismo anti-frammentazione sarà collegato al raggiungimento degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza».

Insomma un collare a strozzo, da cui non sarebbe escluso il famigerato Mes che, insieme alla Commissione, avrebbe «un ruolo di analisi della sostenibilità del debiti pubblici dei Paesi protetti dallo scudo anti-spread».

Questo è ciò che potrebbe costarci la “tutela” Europa.

Prendiamo un altro aspetto rilevante su cui si fa spesso confusione: quello energetico, con le relative decisioni di razionamento “consigliate” o imposte dall’Unione Europa.

Ci informa Beda Romano, da Bruxelles giovedì 21 luglio, sempre per il giornale di Confindustria, che: «Secondo l’esecutivo comunitario, l’obiettivo del 15% sarà volontario, in un primo momento». Se dovesse emergere un divario tra la domanda e l’offerta, la proposta prevede la possibilità di imporre «riduzioni obbligatorie a tutti gli stati membri» su decisione di Bruxelles, sentito il consiglio.

La quota del 15% (da applicarsi rispetto al consumo medio degli ultimi 5 anni), pari per l’Italia a 8,3 miliardi di metri cubi, andrebbe usata anche in regime vincolante».

L’austerità energetica, insomma, che comunque non basterebbe nel caso in cui la Russia decidesse di chiudere totalmente i rubinetti del gas.

“In compenso”, grazie al bilancio comunitario potremmo procedere all’acquisto comune di armi, con una dotazione di 500 milioni di euro su due anni, 2023-2024.

L’obiettivo del commissario al mercato unico Thierry Breton è doppio: sostenere la collaborazione in campo militare e rafforzare l’industria europea della difesa.

La scelta della BCE di aumentare dello 0,5% il costo del denaro porterà poi ad una “stretta sul credito” con conseguenze a cascata anche e soprattutto sui ceti popolari e le classi medie, che avevano impostato le proprie strategie di sopravvivenza proprio sulla possibilità di accesso a basso costo al credito per i consumi, la casa, lo studio, ecc.

Ulteriore “commissariamento” delle scelte di fondo di natura politico-economica, austerità energetica, ed incremento del Warfare State sono le ricette della UE anche per l’Italia.

Tutto questo a discapito dei bisogni materiali di una larga parte della popolazione.

La crisi di “governabilità” è indice di una frattura reale del sistema, che bisogna rendere programmaticamente una rottura possibile verso un alternativa.

Il suo motore è il conflitto di classe.

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