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Camere sciolte, governo in carica, elezioni “vietate”

di Dante Barontini

Come un velociraptor Sergio Mattarella è corso a sciogliere le Camere, lasciando il governo nelle sue funzioni, e convocando le elezioni politiche per il 25 settembre.

Le motivazioni offerte sono in piena linea con il “modello di governance” che gli è esploso tra le mani. Il modello chiamato (in inglese, perché non si capisce cosa significa) “output democracy”, fondato su “criteri di efficienza, economicità e competenza“, a discapito di un maggior coinvolgimento dei cittadini, che viene per contrasto definito input democracy.

Chiaro che nel secondo caso il consenso dei cittadini (e la legittimità politica dei diversi interessi sociali) è il cuore stesso della “democrazia parlamentare”, mentre nel primo è un “fastidio” da contenere nei suoi effetti, facilitando l’astensione e creando una classe politica di servi capaci di recitare alcune parti non troppo dissimili.

Mattarella ha infatti indicato gli obblighi e la tempistica del Pnrr, “il periodo che attraversiamo non consente pause negli interventi indispensabili per contrastare gli effetti della crisi economica e sociale; e in particolare dell’aumento dell’inflazione”.

In particolare, c’è il problema dell’«attuazione nei tempi concordati del Piano Ue, cui sono condizionati i necessari e consistenti fondi europei di sostegno».

Stabiliti questi parametri, il rito elettorale deve servire soltanto a stabilire chi – nella pletora di micro e macro formazioni politiche già presenti nel Parlamento appena sciolto, e che si vanno frantumando ulteriormente – dovrà essere investito di mettere in pratica un programma già fissato e immodificabile.

Le decisioni prese proprio ieri dalla Bce illustrano il meccanismo coattvo che stringerà con forza ogni futuro governo presuntamente “politico”. A fianco dell’aumento dei tassi di interesse, infatti, Christine Lagarde ha varato uno “scudo anti-spread” che fa rivivere sotto altro nome il famigerato Mes.

Il Transmissions Protection Mechanism o Tpi, che viene presentato come un rassicurante “ulteriore strumento a disposizione del Consiglio direttivo attivabile per contrastare ingiustificate e disordinate dinamiche di mercato che mettono seriamente a repentaglio la trasmissione della politica monetaria in rutta l’area euro”, autorizza la possibilità per la Bce di acquistare debito pubblico nazionale  senza limiti.

Ma ovviamente a condizione che… Lo “scudo” va infatti richiesto dal governo interessato a non essere fatto a pezzi dalla speculazione finanziaria (gli spread tra i vari titoli di stato sono diversi, nonostante una politica monetaria unica), ma potrà ottenerlo solo se rispetta quattro criteri: conformità con le regole fiscali dell’Ue, assenza di seri sbilanciamenti macro, sostenibilità fiscale e debitoria e politiche macro a livello interno sostenibili e solide.

Tradotto: niente scostamenti di bilancio (come ripetuto ossessivamente da Draghi negli ultimi mesi), nessuna politica sociale non coperta da tagli di spesa su altre voci e da introiti per privatizzazioni dei beni o servizi pubblici. Condizionalità che rendono aria fritta qualsiasi promessa elettorale, insomma.

Una realtà minacciosa che manifestamente contrasta con la necessità – tutta retorica e di marketing – di “farsi notare” dagli elettori con promesse scintillanti. Che saranno fatte lo stesso, nella piena consapevolezza che non si farà nulla di quel che si dice (niente “quote 100”, niente bonus a pioggia, niente sostegni al reddito, ecc.

Una impotenza della politica troppo dura da ammettere pubblicamente. Anche perché, nella mucillagine cui è stata ridotta negli ultimi decenni tutta la “classe politica” è pressoché impossibile trovare un baricentro, una visione non rivedibile nell’arco di poche ore, obiettivi credibili.

Dunque è indispensabile impedire che entrino in campo altre proposte, anche confusamente “di rottura”, con idee e progetti di società radicalmente differenti.

E il compito di vietare di fatto la presentazione di nuovi soggetti politici è affidato al “generale estate”: per partecipare bisogna infatti raccogliere almeno 750 firme per ogni collegio elettorale entro il 21 o 22 agosto, in città svuotate o con la popolazione chiusa in casa per la maggior parte della giornata.

Tempi così stretti contraddicono l’essenza di ogni ideologia liberale, che fa perno sulla dichiarata – ma sempre contrastata – possibilità di promuovere la massima partecipazione e la massima presenza di programmi di governo corrispondenti agli interessi delle diverse classi sociali in campo.

Ci si proverà lo stesso, naturalmente. Così come si fa egualmente lavoro sindacale nonostante la sempre più esplicita criminalizzazione promossa da Procure che equiparano l’organizzazione collettiva a fini contrattuali ad una specie di “estorsione” nei confronti delle aziende.

Ma è evidente che ormai non si può più neanche immaginare la partecipazione elettorale come una banale campagna pubblicitaria dei propri valori, idee, programmi e progetti. E’ una lotta politica, controcorrente, per affermare una soggettività sociale, ideale e politica che il potere non vuole neanche far esistere.

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