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La violenza che muove la storia e altre vicende umane

di Leo Essen

Al Prof Dühring, il quale ritiene che all’origine della storia ci sia la differenza di classe, che dunque l’uomo sia uscito dalla preistoria mediante la forza – la violenza – la lotta, la guerra, e che la proprietà privata sia – originariamente – costituita mediante il furto, la rapina, la sopraffazione, la costrizione – mediante la violenza, appunto – Engels risponde che un bene prima di essere rubato è necessario che sia stato ottenuto con il lavoro. E poi aggiunge due considerazioni semplici quanto sottili.

1) persino la violenza – dunque la lotta delle classi – deve essere letta in relazione (dialettica) [dialettica – questa precisazione è importante, se non si vogliono leggere – oggi – queste pagine di Engels come se fossimo negli anni venti del Novecento, al tempo di Korsch e Lukács] la violenza deve essere letta in relazione al lavoro, allo sviluppo delle forze produttive, alla divisione del lavoro. Per fugare ogni dubbio Engels produce alcuni esempi sulla relazione tra le tattiche di guerra, la produzione di armi e lo stato delle forze produttive, esempi che per noi oggi depotenziano ogni riferimento a Sun Tzu, Clausewitz e compagnia bella.

Engels mostra coma la «Tattica di linea», la «Guerriglia», la «Colonna Napoleonica», e tutte le astuzie dei generali, etc, siano legate ad altrettante innovazioni nella produzione di armi, eccetera, dunque mostra quanto sia stretto il legame tra produzione, divisione del lavoro, supremazia nella produzione di plusvalore, e guerra.

Se pensiamo alla forma [atto] più elementare di divisione del lavoro, scrive Engels, se pensiamo alla schiavitù come forma primitiva della divisione del lavoro non possiamo non notare come essa sia frutto della stessa produttività del lavoro – e non di una violenza originaria. Prima che la produttività del lavoro consentisse di superare la soglia del lavoro necessario era più razionale uccidere i prigionieri di guerra o arrostirli per mangiali. Tanto che, aggiunge Engels, dobbiamo dire, per quanto ciò possa suonare contraddittorio ed eretico, che l’introduzione della schiavitù nelle circostanze di allora fu un grande progresso.

2) In più – e qui arriviamo al punto due – sino a quando la popolazione effettivamente lavoratrice è stata impegnata nel suo lavoro necessario e non aveva tempo eccedente, non potevano nascere le professioni liberali, la politica, gli affari di Stato, le questioni giuridiche, l’arte, la scienza e tutta quella chincaglieria sovrastrutturale – mi piacerebbe scrivere proprio «sovrastrutturale» se fossi sicuro che questa parola sia libera di a) residui ottocenteschi di meccanismo, positivismo, determinismo, etc e b) residui storicisti novecenteschi – tutta quella fuffa per così dire sovrastrutturale che nei due decenni del nuovo secolo ha fatto la fortuna di autori epigonali e patibolari che della violenza, della mera lotta di classe, delle forze e della guerra (o della politica come continuazione della guerra, e viceversa) hanno fatto un tema di estenuante chiacchiera politologico-filosofica, e per i quali, come già per Dühring, la violenza è il male assoluto, il peccato originale, una potenza diabolica che ha infettato tutta la storia con la tebe del peccato originale, occultando proprio il lavoro e lo sfruttamento del lavoro, la produttività del lavoro e il suo legame con la guerra, etc.

Sino a che la produttività del lavoro non ha permesso di superare la soglia del lavoro necessario – e qui Engels viene al punto – non si sapeva che fare dei prigionieri di guerra che quindi venivano semplicemente uccisi e, in un periodo anteriore, mangiati. Ma, quando la produttività del lavoro ha superato la soglia, gli schiavi acquistarono un valore, erano lasciati vivere.

Viene scoperta la Schiavitù.

La produzione, scrive Engels [si tratta di un testo notevole, una volta messe da parte tutte le (giuste) riserve a quella che appare (che è) una piega trascendente dell’empirico, una derivazione insostenibile, criticata fino alla nausea – ma ripeto, non siamo negli anni venti del novecento] la produzione si era tanto sviluppata che ora la forza-lavoro poteva produrre di più di quanto era necessario per il suo semplice mantenimento; i mezzi per mantenere più forze-lavoro c’erano e del pari quelli per impiegarle; la forza-lavoro acquistò un VALORE.

Riassumo. Finché lo schiavo, impiegato allo stremo, produce una quantità appena sufficiente per mantenere se stesso, non ha senso economico tenerlo in vita per sfruttarlo – da esso non si ricava un sovrappiù da rubargli (con violenza). Solo quando la produttività del lavoro aumenta, e lo schiavo è in grado di mantenere se stesso e di mantenere un altro, quest’altro può smettere di lavorare e dedicarsi alle arti liberali – alla politica, all’organizzazione della sua vita e di quella del lavoratore, lavoratore che diventa oggetto del pensiero del politico (o dell’artista).

Non ti mangio, dunque ti penso. Ecco il senso di tutte quelle pippe di Hegel sulla begierde. Ecco la porticina dalla quale la Metafisica fa il suo ingresso nel mondo.

Non ti mangio, dunque ti penso. Ecco da dove viene anche la riserva, il sovrappiù da consumare nel Potlatch.

Il cortocircuito di questa costituzione trascendentale – questo cortocircuito: non si dà riserva senza valore, e non si dà valore senza riserva – fa supporre che il pensiero arrivi strada facendo, a cose già cominciate.

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