Print Friendly, PDF & Email

marx xxi

La crisi dell’impero. Editoriale

di Marco Pondrelli

Se dalle tristi vicende italiani proviamo ad alzare lo sguardo verso quello che succede nel resto del mondo, troviamo una situazione che potremmo nel migliore dei casi definire confusa. Purtroppo oggi non sembra valere l’adagio del Grande Timoniere anzi potremmo dire che grande è la confusione sotto il cielo ma la situazione non è eccellente.

In Ucraina lo scontro militare rischia di trasformarsi in una lunga guerra di attrito, purtroppo anche la cosiddetta sinistra d’alternativa non riesce a capire due cose fondamentali: innanzitutto la guerra non è iniziata il 24 febbraio ma nel 2014 e non certo per colpa della Russia, ma la cosa più importante è che se oggi non viene esperita la via diplomatica la colpa non è di Mosca. L’Europa sta pagando un prezzo altissimo ed in autunno la situazione potrebbe addirittura peggiorare, l’orchestra continua a suonare ma il Titanic sta affondando.

Purtroppo quella ucraina non è la sola questione aperta. La tensione sta tornando pericolosamente a salire in Nagorno Karabakh con i movimenti delle truppe azere. Ricordiamo che in questa regione, fra Armenia e Azerbaigian, si trovano truppe d’interposizione russe che contribuiscono a garantire gli accordi di pace.

Afghanistan, Libia ed anche Iraq, con le recenti tensioni che hanno portato all’occupazione del Parlamento, sono paesi in cui regna ancora il caos e rispetto ai quali si fa fatica ad immaginare una stabilizzazione.

Infine la recente visita della leader del Congresso statunitense Nancy Pelosi a Taiwan è una gravissima provocazione. Il messaggio che mandano gli Stati Uniti è schizoide, da una parte chiedono alla Cina un atto di responsibilità, che nella loro visione significa rompere con la Russia, dall’altra additano la Cina come nemico strategico e compiono provocazioni come quella della Pelosi.

Se osserviamo tutti i fronti di instabilità (che sono molti di più di quelli appena citati, basti pensare a cosa succede in Africa o in Palestina) vediamo che il ‘primo motore’ a cui possiamo collegare queste crisi sono gli USA. Il problema per Washington non è essere in mano a personaggi come la Pelosi o Biden sulla cui lucidità si potrebbe dubitare, il vero problema è la divisione che oggi attraversa le stanze del potere. Probabilmente gli Stati Uniti hanno attraversato una simile spaccatura solo ai tempi della guerra civile.

A novembre nelle elezioni di mid term si prevede una vittoria del Partito Repubblicano oramai egemonizzato da Trump. Questo spianerebbe al Tycoon la strada per una candidatura nel 2024, inoltre è molto probabile che così come la maggioranza democratica ha provato a mettere in Stato d’accusa Trump, la futura maggioranza repubblicana faccia lo stesso con Biden. Un procedimento d’accusa anche se difficilmente porterebbe ad una condanna bloccherebbe l’azione del Presidente per i prossimi due anni. Questo non deve rassicurare. Non immaginiamo un Paese bloccato ed incapace di agire fino alle prossime elezioni presidenziali, tutt’altro il deep state potrà agire con maggiore libertà, quindi potrebbero arrivare altre provocazioni verso la Russia, la Cina o l’Iran.

Ma quando parliamo di divisioni all’interno del gruppo dirigente statunitense di cosa parliamo? Per quanto riguarda la politica internazionale oggi non c’è una divisione sull’obiettivo strategico, che consiste nel bloccare la crescita cinese. La divisione è tattica, una parte del gruppo dirigente pensa che gli USA non possano più essere il gendarme del mondo e che sia necessaria una condivisione con la Cina ed altri Paesi del governo mondiale. Questa posizione non è in contraddizione con una nuova guerra fredda, rafforzare la propria forza militare (anche nucleare) consente di strappare un maggiore potere contrattuale, d’altronde anche verso l’Unione Sovietica la posizione degli USA per molti decenni fu di coesistenza. Un’altra parte del gruppo dirigente è invece per una maggiore assertività, si vuole bloccare la crescita di Pechino destabilizzando il Paese (Tibet e Xinjiang) ed allo stesso tempo colpire Russia e Iran per staccarli dall’abbraccio cinese.

La politica interna è ancora più divisa. Non fermiamoci all’immagine che i politici danno di sé, la sinistra italiana si indignò di fronte alla promessa di Trump di espellere tre milioni di immigrati irregolari ma la stessa sinistra aveva applaudito chi, come il Premio Nobel per la Pace Barack Obama, ne aveva espulsi 2,7 milioni. Il vero scontro è interno al grande capitale, una divisione fra quello che potremmo chiamare il capitale finanziario e quello produttivo. L’economia statunitense è sempre più un’economia di carta, senza scomodare Karl Marx per descrivere gli USA basta citare il protagonista di un film degli anni ’80, 9 settimane e ½, che interrogato su quale fosse il suo lavoro risponde ‘io faccio i soldi con i soldi’. Il problema è che l’economia USA, ed anche la nostra, si basa su complessi strumenti finanziari, come i derivati, che non valgono il valore della carta su cui sono stampati. D’altronde come spiega il generale Qiao Liang tornare ad un’economia produttiva non è semplice, occorrerebbe spiegare ai lavoratori americani che dovrebbero impoverirsi. Quando era Presidente Obama chiese all’allora CEO di Apples Steve Jobs cosa poteva fare il governo per fare tornare in patria i posti di lavoro della Foxconn, la risposta fu lapidaria: quei posti di lavoro non torneranno mai. Ci rendiamo conto che il socialismo per le classi dirigenti USA non è una soluzione ma dall’altra parte accusare la Cina di tutti i mali può essere un modo per ottenere un seggio ma non risolve il problema della povertà di larghi strati della popolazione e della crisi complessiva degli Stati Uniti d’America. Le politiche protezionistiche degli USA hanno ridotto il deficit verso la Cina ma senza migliorare la bilancia commerciale, semplicemente quello che si andava a prendere in Cina oggi lo si compra e lo si produce in Birmania o in Vietnam.

I problemi per gli USA rimangono enormi, purtroppo i loro problemi sono quelli di tutto il mondo. Se quello che abbiamo davanti sarà un futuro di pace o meno in parte dipenderà da come Washington risponderà a queste domande.

Add comment

Submit