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lafionda

La Prima Repubblica come categoria dello spirito politico

di Carlo Magnani

La Prima Repubblica è stata una fase precisa della nostra storia nazionale, e la sua repentina e inattesa dissoluzione è forse la causa che ne ha dettato la conversione in una vera e propria categoria dello spirito. Infatti, il periodo che va dal 18 aprile 1948 sino allo scioglimento delle Camere elette nel 1992, costituisce un grumo psico-politico diffuso e tuttora attivo nell’immaginario di chi ha almeno una quarantina d’anni d’età anagrafica sul groppone. Più che materiale per il freddo lavoro degli storici, tale serbatoio emotivo si presterebbe all’interpretazione che ne possono dare i narratori di storie, cioè i costruttori dei miti che danno corpo al romanzo collettivo della nazione. Tale periodo – che comprende quei decenni che la storiografia europea definisce i Trenta Gloriosi – è stato da noi vissuto con una intensità speciale, enfatizzando l’eredità del sistema dei partiti di massa che ha costituito la vera “costituzione materiale” del Paese. La fine di quel mondo, che pareva eterno, ha costretto tutti a confrontarsi con l’idea di “nuovo”, concetto che era confinato esclusivamente all’uso dei pubblicitari e pressoché bandito in politica, ove veniva al massimo tollerato sotto le mentite spoglie di una promessa di un generico rinnovamento nella continuità.

Abbiamo così scoperto nuovi mondi, portando però dentro una profonda nostalgia per il vecchio, che abbiamo continuato a ricercare – annusandolo come i cani cercano i tartufi – ogni volta che se ne intuiva una poco probabile riapparizione.

Senza questo breve cenno di contesto, anche generazionale, non si potrebbe comprendere il romanzo “L’ultimo commosso saluto a un uomo molto amato” (People, editore). L’Autore, per quanto anonimo, non è però sconosciuto al popolo dei social, infatti cura da anni, nella veste austera di Luminoso Segretario, un profilo significativamente denominato UfddPr.Og (“Una foto diversa della prima Repubblica. Ogni giorno”) che conta più di 100.000 tesserati. Per contrassegnare questa opera ha preferito uno pseudonimo, firmandosi come Pieter Freibeuter, che se non abbiamo consultato male la traduzione che internet offre, significa “corsaro”, “pirata” o anche “uomo privo di scrupoli”. Chissà se questa opzione non serva a mettere da subito il lettore sulla pista di una politica corsara e non troppo condizionata da scrupoli morali? La trama è tutta centrata sulla figura di un inventato politico “primo-repubblicano”, seguendo un andamento cronologico a ritroso. L’evento con il quale la narrazione prende le mosse è un lutto, la dipartita di Mario Celeghin, detto Mariolino, avvenuta nel gennaio del 2019. Da questo evento si dipanano due fili, fortemente intrecciati, che danno corpo al racconto: da un lato, la vicenda famigliare, e dall’altro quella più strettamente politica.

Mario Celeghin, come tradisce il cognome, ha origini venete e il partito nel quale farà una formidabile carriera, da consigliere comunale sino a deputato e sottosegretario, non è la bianca Dc – come i natali avrebbero potuto suggerire – bensì il Partito socialista. Il dato geopolitico ha la sua rilevanza, tanto che per entrare nella politica vera e nelle sfere alte del Psi, l’ingegnere Celeghin sposta ben presto la sua base d’azione direttamente a Milano: nella capitale del craxismo. Emendato dalle origini venete, il profilo politico non è per nulla originale: militante della corrente lombardiana di sinistra del partito, mette in secondo piano la spinta ideale per trasformarsi in un politico, per così dire, più pragmatico. Un piccolo favore da consigliere comunale è il momento in cui realizza di aver perso la verginità. “Gli era piaciuto, quel primo proto-abuso di potere, ammesso che si potesse definire tale. Aveva provato piacere, sì, piacere era proprio la parola esatta”.

Così, a partire dal comunicato Ansa che annuncia la dipartita di Mariolino Celeghin, l’Autore ci fa conoscere meglio questo uomo da “pentapartito”, portandoci indietro nel tempo. La scena allora abbandona il mondo dei social per rientrare nell’epoca dei fax e del televideo. Si torna ai primi mesi del 1992, tra inchieste giudiziarie e liste da preparare per le elezioni di primavera, le ultime della gloriosa Prima Repubblica. Le pagine che tratteggiano questi istanti della vita di Celeghin costituiscono il corpus centrale e più sostanzioso del romanzo. Ne ricaviamo il profilo di un uomo che inizia a perdere le sue sicurezze, sia affettive che politiche, che si sente minacciato dai tempi nuovi che incombono; eppure, sarebbe pronto per fare il salto al vertice di un Ministero (ne ha parlato con Bettino) ma si trova invece a sgomitare in un incerto collegio elettorale. Si respira nelle pagine una atmosfera chiusa, la casa, lo studio di rappresentanza in centro, le telefonate con i pochi fidati amici rimasti e con i tanti da cui guardarsi, sono momenti di una esistenza ormai asserragliata, condotta sempre al riparo. Manca quasi l’aria nelle giornate di Celeghin, esce presto per comprare il giornale e se passeggia lo fa discretamente solo di notte. Il lettore percepisce a fondo questa cupezza dissolutiva, che investe anche la vivace vita sentimentale del Nostro protagonista. Tutto sembra crollare nel corso del 1992.

Il libro avrebbe tranquillamente potuto riportare come titolo “La doppia morte di Mariolino Celeghin”: la prima, che apre il racconto, quella biologica avvenuta nel 2019, e la seconda, ma ben più rilevante, quella politica verificatasi nel 1992. Non a caso, sul letto di morte, l’infermiere intese alcune parole sconnesse che suonavano così “Quanto sono stato coglione a non impuntarmi su Milano” pronunciate da Mariolino prima di spirare. Il testo quindi si divide in due dimensioni temporali molto distanti, forse troppo, sappiamo molto delle giornate del 1992 ma quasi nulla – se non qualche eccesso sentimentale – dei quasi trenta anni che sono seguiti. Questo salto sgomenta il lettore, che si chiede se veramente in quell’intermezzo siano accadute cose rilevanti e meritevoli di attenzione oppure se non si sia trattato di un lungo sogno, di una sospensione della politica vera – come accaduto nella vita di Celeghin. A unire i due periodi c’è però il gruzzolo nascosto all’estero che rientra per vie traverse a soddisfare i vari assi ereditari.

Ma guai a credere che il racconto assecondi sentimenti di nostalgia o di rimpianto. Si presenta invece piuttosto secco e crudo, realista e cinico si potrebbe persino dire, scientifico e tecnico nella descrizione delle dinamiche della politica. Così ci approssimiamo a quello che sembra invece il centro del romanzo, il tema che trascende gli eventi narrati e le personalità in gioco per proiettarsi oltre, sino all’attualità. Tale cuore è riassumibile nel rapporto tra politica e morale, questione eterna e magmatica, che riceve qui una sua interpretazione. Il commosso saluto al sottosegretario Celeghin non è forse l’addio alla politica tout court? Quella politica magari senza moralismi ma non priva di morale? Oggi sembra invece valere l’inverso, tanto moralismo in assenza di etica. Il fatto è che i sistemi ideologici di riferimento costituivano, bene o male, piccoli ordini in cui le passioni umane trovavano un senso e una disciplina. Nelle ideologie, e nei relativi apparati, l’individuo trascendeva se stesso e la propria contingenza. Ora domina una politica subordinata alla economia dove tutto è già scritto, e dove ai politici si chiede conto di tante piccole cose riflettenti valori del tutto impolitici. Ma questo è il tempo che ci è dato vivere. Per suggestioni sul futuro, comunque, si rimanda invece al finale del libro, degno della migliore commedia all’italiana. Che ovviamente non svelerò, nemmeno per una tangente.

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