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cumpanis

Taiwan e l’orizzonte storico

di Manolo Monereo

"Gli Stati Uniti si stanno attivando al massimo e non si fermeranno finché non avranno sconfitto le potenze emergenti che mettono in discussione la loro egemonia. Putin lo ha imparato anni fa e oggi Xi Jinping lo sta sperimentando direttamente"

Gli Stati Uniti hanno umiliato la Cina? Hanno indebolito Xi Jinping? Apparentemente, sì. Nel gioco tra realtà e apparenza, gli americani sono estremamente creativi. Il loro compito è quello di costruire scenari che a volte si sovrappongono e a volte no. Il primo è sempre quello della realtà, dei fatti sociali in senso stretto. L’altro scenario principale è quello mediatico-cognitivo, che consiste nell’inventare “fatti comunicativi” che riconfigurano i fatti sociali, li inquadrano e li interpretano secondo la loro volontà politica. La chiave, alla fine, è imporre una certa lettura di questa realtà.

La tempistica dell’assassinio stragiudiziale del leader di ciò che resta di Al Qaeda non è casuale, ma accompagna il messaggio che l’Amministrazione statunitense intende inviare all’emisfero Orientale insieme alla Presidente della Camera dei Rappresentanti, la signora Pelosi: gli Stati Uniti sono un attore determinante nell’area Asia-Pacifico (ora abilmente ribattezzata Indo-Pacifico) e non permetteranno l’emergere di una potenza che sfidi il loro dominio e la loro influenza.

L’assassinio di Al-Zawahiri è il “tocco” comunicativo, l’elemento cinematografico che rafforza l’immagine di superiorità e potere: chi si oppone al grande potere (auto)designato ne paga sempre il prezzo. Il lungo braccio della giustizia dell’Impero del Nord raggiunge tutti i nemici, ovunque essi si trovino; prima o poi.

È sconvolgente il modo in cui la comunità internazionale ha accolto la “diplomazia dei droni della morte”, come una modalità normalizzata di fare politica internazionale da parte delle varie amministrazioni statunitensi. Il Presidente Obama è stato un abile maestro nell’utilizzare questo strumento punitivo stragiudiziale, in particolare in Pakistan, dove diverse migliaia di persone – per lo più innocenti, compresi i bambini – sono state uccise per la maggior gloria della giustizia statunitense. Non sappiamo se queste azioni abbiano avuto molto a che fare con la sua designazione a Premio Nobel per la pace nel 2009; di certo hanno contribuito alla sua immagine di uomo di pace e di degno difensore dei diritti umani, compresa Guantánamo. La comunità internazionale è questa, i media globali ne garantiscono l’imparzialità e il delicato equilibrio. L’Occidente in tutto il suo splendore e la sua potenza.

Ci sono state molte interpretazioni sul viaggio di Nancy Pelosi a Taiwan; anche sulla risposta immediata e futura del governo cinese. Si è parlato del fatto che la Presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti abbia agito di propria iniziativa per ottenere vantaggi elettorali interni. Sulla posizione di Biden ci sono diverse letture. La più credibile è che inizialmente fosse titubante, ma che sia stato rapidamente convinto dal suo team che era il momento giusto per inviare un segnale forte alla Cina e, in generale, ai Paesi asiatici che mantengono atteggiamenti ambigui o esitanti. Presto si saprà tutto. La reazione della Cina è stata molto forte. In primo luogo, dal punto di vista politico e militare, e in secondo luogo dal punto di vista economico e commerciale. Sono evidenti la rabbia e la frustrazione che devono essere sempre prese in considerazione e, nel caso della Cina, ancora di più.

Credo che questo incidente politico diplomatico avrà profonde conseguenze e un impatto duraturo sulla politica estera e interna della Cina. Perché? L’atteggiamento dell’amministrazione statunitense è chiaro: per difendere il proprio controllo e dominio dell’area, è pronta a utilizzare tutti gli strumenti disponibili, compresi quelli militari in un contesto che include direttamente gli ordigni strategico-nucleari. Credo che questo sia ciò che le élite politiche e intellettuali europee non capiscono e non vogliono capire. Gli Stati Uniti si stanno attivando al massimo e non si fermeranno finché non avranno sconfitto le potenze emergenti che mettono in discussione la loro egemonia. Putin lo ha imparato anni fa e oggi Xi Jinping lo sta sperimentando direttamente.

Il dibattito ruota ora intorno all’irresponsabilità, alla mancanza di esperienza e all’ignoranza della storia dell’attuale gruppo dirigente statunitense. C’è del vero in questo, ma purtroppo la realtà prevale al di là delle illusioni e delle buone intenzioni. L’incidente di Taiwan getta molta luce sulla guerra in Ucraina, vale a dire che il vero obiettivo è la Cina e che la guerra della NATO contro la Russia fa parte di una strategia globale ben studiata e organizzata. Con il passare del tempo, le cose diventeranno più chiare e le nubi si dissolveranno. Quando si tratta di prendere posizione sui conflitti del presente, si commettono due grandi errori: a) non tenere conto che la correlazione di forze a livello globale è segnata dal dominio, dal controllo economico e politico-militare degli Stati Uniti. Sono loro che comandano e che impongono un certo ordine attraverso un gioco, più o meno esplicito, tra soft power, potere strutturale e hard power, espresso nei termini benevoli della loro scuola; b) eludere sistematicamente il fatto che esiste una forte asimmetria del potere punitivo-militare tra l’imperialismo collettivo dell’Occidente e il resto del mondo, comprese le potenze emergenti e una Russia in fase di ricostruzione. Questo è stato evidente fin dalla Seconda Guerra Mondiale ed è diventato decisivo dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia.

Gli Stati Uniti sono l’unico Paese che può essere definito imperiale: le sue 800 basi militari in più di 80 Paesi; la qualità e la composizione della sua struttura militare organizzata per dominare i mari e la pronta disponibilità di forze di spedizione in grado di intervenire in modo decisivo in qualsiasi parte del mondo; l’enorme potere economico del complesso militare-industriale e tecno-scientifico; una politica di alleanze che, di fatto, serve a subordinare e a dirigere le forze armate dei suoi alleati, come la NATO; l’enorme entità della sua spesa militare. Si potrebbe continuare. Non tutti sono uguali. Alcuni governano e altri si ribellano a questo dominio.

L’obiettivo centrale della politica estera degli Stati Uniti da Bush senior in poi è stato quello di impedire l’emergere di una potenza economica, politica o militare abbastanza potente da sfidare l’egemonia statunitense nel mondo e le istituzioni internazionali che la mantengono e la riproducono. Non ho dubbi che questo sia noto alla leadership cinese e che, in un modo o nell’altro, guidi la sua azione politica. Ciò che è chiaro, dopo la guerra in Ucraina e l’incidente calcolato di Taiwan, è la ferma determinazione dell’America ad impedire la transizione verso un mondo multipolare, a qualunque costo, utilizzando tutti gli strumenti disponibili, dalla guerra economica a quella tecnologica, ai conflitti ibridi, alle operazioni speciali e al pieno utilizzo delle nuove tecnologie basate sull’intelligenza artificiale e sulla colonizzazione del cyberspazio.

Non c’è più spazio per l’ingenuità in un mondo che sta vivendo un lungo e tortuoso interregno tra un vecchio ordine organizzato guidato dagli Stati Uniti e un nuovo ordine che sta emergendo intorno alle grandi potenze orientali, con la Russia che si orienta verso l’Eurasia e rompe i legami con un’Unione Europea subalterna, sempre pronta a scomparire come soggetto politico per la maggior gloria degli Stati Uniti. Il vero dibattito, quello che divide davvero le forze politiche, ha a che fare con questo: se si sta con il vecchio ordine imperiale e coloniale o con il nuovo che si sta costruendo, come sempre, in condizioni drammatiche. Se si scava più a fondo, diventa molto chiaro che, per una parte sostanziale dei partiti europei, il loro ordine è l’ordine esistente, la “Pax nordamericana”, che viene messa in discussione in tutto il mondo. In altre parole, le classi dirigenti europee preferiscono trincerarsi dietro la forza degli Stati Uniti piuttosto che essere parte autonoma e attore determinante del nuovo mondo emergente.

Non è questo il momento di approfondire la questione. Lo farò in seguito. Sono molto più interessato a una questione che Pepe Escobar, Michael Hudson e, soprattutto, Alastair Crooke hanno affrontato con forza: il potere degli Stati Uniti non è più quello di una volta; non sono più in grado di imporre al resto del mondo, nemmeno agli alleati più vecchi o più recenti, il rispetto rigoroso delle loro richieste. Raccolgono dove raccolgono, cioè nel vecchio Occidente imperiale e coloniale, basato sui protettorati politico-militari di Giappone, Corea del Sud e Germania/Europa. Per dirla con le parole di un noto diplomatico di Singapore ed ex presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Kishore Mahbubani: “Gli inflessibili leader dell’Occidente dovrebbero ripetersi una statistica ogni sera, prima di andare a dormire: l’Occidente comprende solo il 12% della popolazione mondiale”. Il mondo sta cambiando in fretta e furia; infatti, le sanzioni contro la Russia – e in parte contro la Cina – stanno accelerando il declino dei suoi due elementi costitutivi, il dollaro e il “Settimo Cavalleria”.

La lotta per la pace deve collocarsi su questo versante, tra un ordine unipolare in crisi e un mondo multipolare in fase di sviluppo accelerato. L’elemento decisivo è che questa lotta per la pace deve avere un contenuto anti-imperialista e contro il suo strumento politico-militare, la NATO. Perché? Va sottolineato ancora una volta: il vecchio non accetta l’emergere pacifico del nuovo, non accetta la fine del dominio dispotico dell’Occidente. La compagine che oggi guida gli Stati Uniti parte da un presupposto che ci pone permanentemente sull’orlo dell’abisso, ovvero che gli “altri” non useranno mai la loro forza nucleare e potranno, quindi, continuare ad abusare della loro chiara e netta superiorità militare. L’obiettivo della lotta per la pace è un nuovo ordine internazionale multipolare, democratico, giusto e inclusivo. La sfida è evitare che la sconfitta dell’imperialismo collettivo dell’Occidente finisca in un inverno nucleare.

È l’ennesima vittoria degli Stati Uniti, come quelle in Iraq, Libia o Afghanistan. Una chiara e netta vittoria di Pirro. Si dice che il re dell’Epiro, Pirro, dopo la sua vittoria sui Romani abbia detto: “Un’altra vittoria come questa e tornerò a casa da solo”. Andrei Martyanov, con la sua ironia pungente, ha sintetizzato il tutto come segue: grazie alla signora Pelosi per aver avvicinato ancora di più la leadership cinese ai suoi cittadini; grazie per aver rafforzato e sviluppato l’unità tra Russia e Cina. Il mondo non è più quello di una volta.


Traduzione a cura di Liliana Calabrese.

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