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Crisi della rappresentanza o dei rappresentati?

di Federico Giusti

“Piuttosto che parlare genericamente di crisi della rappresentanza dovremmo analizzare e comprendere la crisi dei rappresentati con l'avvento di quella tecnocrazia ordo-liberista (capitalista) che ha cancellato ogni riferimento tra rappresentanza politica e interessi di classe”

La crisi della rappresentanza politica non scalda i nostri cuori. Da quando si è affermato il dogma della governabilità sono avvenuti, non solo nel nostro Paese ma anche in alte nazioni europee, cambiamenti forse irreversibili sanciti dalla Ue, dall’euro e dal tramonto della sovranità monetaria che ha determinato la crisi della stessa sovranità politica da intendere come autonomia del soggetto statale nel rispondere solo al Parlamento e all’elettorato. Non si tratta di addentrarci in alchimie elettorali o nel ricercare, come fatto da Fondazioni e riviste, la forma migliore del sistema politico ma di sciogliere i nodi salienti e i problemi irrisolti di una lunga crisi che ha attraversato il movimento sindacale e quella che un tempo definivamo genericamente la sinistra.

Quando gli eredi della sinistra diventano alfieri della lotta al sovranismo viene meno ogni spazio critico, non solo rispetto a come si è materializzata l’Europa di Maastricht e si finisce con il subire passivamente quell’insieme di regole che hanno sancito la libera circolazione dei capitali e allontanato ogni intervento statale, ergo pubblico, nell’economia. Da qui nasce l’inciucio, avere bollato come sovranismo la stessa sovranità politica, avere subìto e accettato l’idea che i Parlamenti non siano sovrani delle loro decisioni perché esiste un organismo europeo che detta linee in materia di economia, finanza, welfare e perfino su materie come lavoro, pensioni e sanità.

Un cammino lento ma inesorabile iniziato con la separazione della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro: correva l’anno 1981 quando l’allora ministro Andreatta (padre politico dell’attuale segretario Pd Enrico Letta) pose fine all’acquisto illimitato dei titoli di Stato da parte della nostra Banca centrale.

Fino ad allora lo Stato decideva la propria politica economica e la Banca d’Italia si muoveva dietro le indicazioni del Ministero del Tesoro, da qui l’obbligo di finanziare la spesa pubblica con l’acquisto dei titoli di Stato la cui libera emissione permetteva all’Italia ampi margini di spesa pubblica e investimenti sociali dei quali si è persa, invece, traccia.

Dal 1981 siamo passati, in pochi lustri, al pareggio di Bilancio in Costituzione, alla Riforma del titolo V della Costituzione, allo smantellamento delle Province, al pareggio di Bilancio imposto agli Enti locali. In questi contesti, quando non ci sono stati gli spazi per maggioranze parlamentari, sono arrivati governi tecnici bipartisan imposti dalle burocrazie europee e tanto il centro sinistra quanto il centro destra, su innumerevoli materie, si sono mossi all’unisono. Basterebbe vedere i voti a favore delle missioni di guerra o delle controriforme in materia di lavoro, pensioni e welfare per comprendere come alcuni obiettivi, al di là della strillata retorica a uso social, siano trasversali agli schieramenti che, in teoria, dovrebbero essere invece alternativi. In realtà non assumeranno mai decisioni in aperto contrasto con la Ue, per non trovarsi nella situazione del 2011 quando Draghi e Trichet scrissero la famosa lettera al Governo italiano (presidente del Consiglio Berlusconi) che spianò la strada prima all’arrivo di Monti alla presidenza del Consiglio e poi alla svolta a destra nel Pd con l’ascesa di Matteo Renzi.

Dobbiamo prendere atto che a partire dalla fine degli anni Ottanta, e la stagione di Mani Pulite ha in parte accelerato i processi in atto, sono tramontati non solo i partiti di massa ma, venendo meno i riferimenti ideologici tradizionali, anche la politica ha attraversato una fase di progressiva e inesorabile crisi. Se i partiti si sono ridotti a convitati di pietra di interessi forti, dal canto loro i sindacati rappresentativi sono divenuti così moderati dal sottoscrivere ogni accordo con i Governi arrivando a sostenerli direttamente come avvenuto con l’esecutivo Draghi.

Non si tratta di rimpiangere i bei tempi che furono, perché forse così belli non sono mai stati, ma comprendere una volta per tutte che l’avvento del maggioritario, la nascita della Ue e ancor prima la volta dell’Eur e il compromesso storico sono figlie di una stagione controversa che ha visto la sconfitta dei movimenti massa e il venir meno dei legami tradizionali tra forze politiche e interessi materiali. E l’avvento del partito unico europeo (vedi Che fine hanno fatto la UE e l’antieuropeismo? a cura de “La Fionda”) supera un quindicennio almeno nel quale sembrava che gli schieramenti politici fossero divisi tra fautori della Europa di Maastricht ed euro scettici.

Se vogliamo un esempio calzante di come oggi i Parlamenti, sul modello Usa, siano ostaggi di interessi forti trasversali agli schieramenti, dovremmo guardare alla sempre verde lobby nuclearista che non ha bisogno di un partito di riferimento, sa bene di potere contare tanto sui centristi quanto sulle destre e all’occorrenza anche su settori del centrosinistra che per “salvare il Paese dalla crisi energetica” potrebbero operare scelte innaturali magari per coprire gli effetti nefasti delle sanzioni alla Russia.

Giulio Di Donato, in un bel libro pubblicato da pochi mesi (Pass costituzionale a cura di Geminello Preterossi), si sofferma sulle cause della crisi dei rappresentati e fa intendere che le rivoluzioni passive gramsciane (americanismo, fordismo e fascismo) potrebbero riprodursi oggi con tecnocrazia, transizioni digitale e transizione climatica per rinnovare le gerarchie e conservando i rapporti sociali ed economici dominanti.

Non sarebbe la prima volta che il capitalismo interpreta emergenze reali non per fornire risposte convincenti e durature nell’interesse generale ma solo per scongiurare la sua crisi; è accaduto con la liquidazione del modello taylorista e l’avvento del toyotismo e, anni dopo, con gli algoritmi che fanno muovere i lavoratori alla stregua di robot. Ricordiamoci, invece, di come le fabbriche giapponesi sono state enfatizzate da certi sociologi di sinistra, narravano la fine della catena tradizionale e l’automatizzazione era considerata un vantaggio innegabile per le classi lavoratrici che avrebbero visto diminuire la loro fatica fisica migliorando al contempo la qualità della vita e degli ambienti di lavoro. Stesso discorso vale per la precarizzazione del lavoro, l’esaltazione del posto fisso e del contratto a tempo indeterminato erano bollati come retaggio del passato per avvalorare l’avvento delle molteplici tipologie contrattuali all’insegna della precarietà. Il nuovo contrapposto al vecchio è stato, quindi, una sorta di ideologismo che ha permesso alla precarietà lavorativa ed esistenziale di affermarsi, le nuove metriche del lavoro non ci hanno liberato dallo sfruttamento ma piuttosto lo hanno acuito.

A distanza di alcuni decenni sappiamo che le castronerie alimentate dall’esaltazione del nuovo non si basavano sulla reale comprensione dei processi in atto e, come sempre, ci si soffermava sugli aspetti meno rilevanti ma comunque utili a quella narrazione apologetica e acritica atta a giustificare e a magnificare i processi di ristrutturazione del Capitale. Tra i cantori del nuovo ritroviamo i sindacati rappresentativi che hanno costruito le basi della débâcle del movimento dei lavoratori asserviti come sono alla logica del meno peggio, della rappresentanza, protagonisti di quel sistema di deroghe ai contratti nazionali che favorisce solo le parti datoriali.

Davanti ad una vera e propria Restaurazione Progressiva torna l’incubo del pilota automatico di cui parlò Mario Monti all’indomani delle elezioni che seguirono il suo Governo, ossia un insieme di regole dettate dalla Ue che avrebbero spinto la tecnocrazia dominante a richiamare all’ordine ogni Governo che avesse smarrito la “retta via”.

La crisi endemica del capitale produce a sua volta, con dinamiche e tempi diversi, anche la crisi della rappresentanza ma è indubbio che i soggetti più a rischio siano proprio le classi subalterne che oggi potrebbero votare il centro destra e sostenere la flat tax pur sapendo che questo sistema fiscale, tanto caro ai Chicago Boys, farebbe solo la fortuna dei grandi capitali. Dopo anni di ricchezza finita ad ingrassare i profitti, i sindacati continuano a perorare la causa della riduzione delle tasse sui redditi da lavoro sapendo che i soli vantaggi andranno alle parti datoriali e i soldi loro regalati mancheranno al welfare, all’istruzione e alla sanità.

Al contempo, se qualcuno pensasse di votare il centrosinistra si troverebbe insieme agli artefici delle politiche di austerità temperata e della guerra che rivendicano il venir meno di ogni sovranismo economico in nome dell’Europa dei capitali creando confusione, come inizialmente scritto, tra sovranità e sovranismi.

Il dirigismo tecnocratico dall’alto, la Ue di Maastricht, il neo keynesismo di guerra, con il quale il vecchio Continente si incammina sulla stessa strada aperta dagli USA, la critica alle rivoluzioni passive dei nostri giorni non troveranno alcun spazio nella campagna elettorale, come del resto non troveremo alcune semplici rivendicazioni quali aumenti salariali in linea con il reale costo della vita, automatismi sul modello della scala mobile, riduzione dell’orario di lavoro a parità salariale, e nemmeno una velata critica alla tecnocrazia Ue, nessun accenno alla cancellazione del jobs act e della Fornero.

Carlo Formenti parlò, anni fa, di variante di sinistra del populismo (Carlo Formenti, La variante populista, DeriveApprodi, 2016) sostenendo che le ragioni di classe e quelle della sinistra erano entrate in aperta contrapposizione e una buona parte dell’armamentario ideologico della stessa sinistra oggi si presenta funzionale alla costruzione dei nuovi dispositivi di potere.

A distanza di alcuni anni potremmo asserire, e senza timore di smentita, che con la scusa dei sovranismi di destra viene negato ogni dibattito sulla sovranità che poi significa interventi pubblici e statali nell’economia a favore delle classi subalterne e poter recuperare quel percorso di ampliamento dei diritti sociali interrottosi oltre 40 anni fa e oggi indispensabile per ricostruire un rapporto diretto con le nostre classi di riferimento.

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