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Sulla morte di Gorbaciov

di Felix

Gorbaciov è stato l’ultimo Presidente della Unione Sovietica, nel periodo dal 1985 alla notte del Natale del 1991, quando, dalle mura del Cremlino, venne ammainata la bandiera rossa, per decenni simbolo della vittoriosa Rivoluzione socialista d’Ottobre del 1917, che permise, per la prima volta nella storia, la costruzione di uno Stato fondato sul potere degli operai, dei contadini e dei soldati.

L’URSS, fondata nel dicembre 1922, era titolare di una storia grande e gloriosa che l’aveva vista, dopo la vittoria nella guerra civile e la cacciata delle armate d’invasione degli eserciti delle potenze capitaliste e imperialiste, costruire sotto la guida di Stalin e del Partito comunista, una moderna industria e agricoltura che la classificheranno, nel 1937, come la seconda potenza industriale del mondo.

Ciò le permetterà di reggere l’urto, in pochi anni, del secondo attacco militare, tramite le armate nazifasciste, dell’imperialismo internazionale, nel 1941, uscendone, di fatto, come la principale vincitrice della Seconda guerra mondiale, con un grande accrescimento del proprio prestigio internazionale, che si riversò, inevitabilmente sul movimento operaio e comunista.

Dopo la morte di Stalin, nel 1953, le accuse della direzione kruscioviana nei suoi confronti, contribuiranno a sminuire, almeno parzialmente, tale prestigio, storicamente e drammaticamente conquistato, mettendo seriamente in difficolta il movimento operaio e comunista internazionale stesso.

In tal senso opererà anche, la sostituzione del concetto di “competizione” con quello di “distensione” nei confronti del sistema imperialista mondiale, guidato dagli USA, così come la ricerca di vie “parlamentari” al socialismo, nei Paesi dell’Occidente capitalistico.

La nuova leadership di Brežnev, dopo la destituzione di Krusciov, nel 1964, corresse, in parte, tali impostazioni e contribuì a rilanciare, su nuove basi, l’internazionalismo proletario, e a dare, all’interno del Paese, nuovo slancio alla costruzione del socialismo.

Tuttavia, all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, l’Unione Sovietica viveva un momento difficile della propria storia, che avrebbe richiesto un perfezionamento del proprio funzionamento e del suo assetto socio-economico e istituzionale.

L’URSS, per essere ristrutturata, nella direzione del rilancio del socialismo, avrebbe richiesto un’azione, lenta e prudente, con la giusta attenzione agli equilibri di potere interni, e al mantenimento di un assetto di politica estera adeguato alla necessaria cooperazione degli Stati del Comecon, anche al fine di sviluppare le integrazioni dei rispettivi mercati, con una modernizzazione della economia socialista che sapesse integrare, sempre più proficuamente, pianificazione e mercato.

La leadership di Andropov, negli anni 1982/84, aveva in mente tutto ciò.

Fin dall’inizio del suo mandato, invece, Gorbaciov (1985-1991), caratterizzò la sua azione con la promozione di un movimento “critico” nei confronti della Unione Sovietica, del suo assetto socio-economico e istituzionale.

Sul piano economico, fondò la sua azione sul fatto che si registrassero, ormai, nel Paese, i segni di una “stagnazione” ereditata dall’ultima fase del periodo brezneviano.

Sul piano istituzionale, sottolineò, sempre più insistentemente, la eccessiva “centralizzazione” del potere politico, mentre sul piano sociale il motivo di fondo sollevato fu la “carenza” di organi di esercizio di potere dei lavoratori, nella vita politica e sociale.

Nell’Unione Sovietica degli anni ’80 del secolo scorso, risultava sempre più chiaro che si trattava di un movimento “radicale” che ne metteva in discussione i cardini della sua esistenza.

Come succede spesso, nel corso della storia, il limite principale dei movimenti “riformatori” consiste nel non saper indicare l’alternativa rispetto alla realtà criticata.

Si trattava, cioè, di ricercare e combattere le cause della relativa “stagnazione economica” che pervadeva il Paese, attraverso una rinnovata rivoluzione tecnologica, in grado di utilizzare I livelli più avanzati di automazione, applicata ai processi produttivi, al fine di raggiungere più elevati tassi di produttività ed efficienza, nella combinazione dei fattori produttivi.

Si trattava, pure, di ricercare diversi e più efficaci livelli di rapporto, nell’esercizio del potere politico, fra governo centrale e le diverse Repubbliche costitutive dell’Unione.

Così come, sul piano sociale, non banale sarebbe stata una seria opera di ricerca e applicazione di un più coerente ed esteso potere decisionale agli organi del potere operaio e popolare.

Ma, nulla di tutto ciò era compreso nel progetto gorbacioviano che, dopo aver sollevato questioni non banali, relativamente al funzionamento dell’Unione Sovietica, privo di un punto solido, di tipo analitico e propositivo, lasciò, ben presto, il movimento che prese il nome di “perestroika” in mano alle forze reazionarie interne e internazionali, che puntavano, sostanzialmente alla distruzione dei capisaldi di funzionamento di un solido ed efficiente Stato socialista.

Così, si giunse all’anno 1991, quando un Referendum, svoltosi nel mese di marzo, dimostrò che, la stragrande maggioranza dei popoli sovietici (73%), desiderava il mantenimento, nel rinnovamento, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).

Ma le forze che puntavano alla distruzione della stessa, avevano già preso il sopravvento nei gangli vitali dello Stato e della società, cosicché si giunse, dopo il fallimento del tentativo, nel mese di agosto, di una parte degli apparati statali, di porre un freno ai processi distruttivi in corso, alla finale scelta di sciogliere l’URSS, plasticamente rappresentata dall’immagine di Boris Eltsin che punta il dito, con fare minaccioso, contro Gorbaciov, come atto finale di una tragedia di cui quest’ultimo fu, nello stesso tempo, evocatore, vittima e carnefice.

Questo è il giudizio storico che porta con sé la morte di Gorbaciov, al cospetto dei popoli del suo Paese e dell’umanità intera.

Un’immane tragedia che, il venir meno della Unione Sovietica, provocò per la classe operaia, per i lavoratori e le lavoratrici e per tutti gli sfruttati e oppressi dal capitalismo e dall’imperialismo, per l’umanità intera che, ancor oggi, ne porta i segni nella propria condizione di esistenza sofferente.

Non si realizzarono, dopo il biennio 1989/91, le profezie evocate da Francis Fukuyama, che scrisse un libro, La fine della Storia, in cui si preconizzava l’eterno e stabile trionfo del capitalismo e dell’imperialismo.

Dopo gli anni durissimi che seguirono la sconfitta subita dal socialismo in Europa, dopo gli sforzi immani di Cuba Socialista e gli altri Paesi che non rinunciarono al socialismo, a partire dalla Repubblica Popolare Cinese che seppe, invece, rilanciare il socialismo rinnovandolo fino a diventare la grande potenza politica, economica e sociale che oggi è, punto di riferimento per l’umanità intera, nel 1998, in un grande Paese dell’America Latina, il Venezuela, la vittoria elettorale di Hugo Chávez, che segnò l’avvio del processo di rivoluzione bolivariana per il socialismo del XXI secolo, fu la migliore risposta alle nefaste previsioni e agli auspici di Francis Fukuyama e di tutti i gazzettieri del capitalismo e dell’imperialismo internazionale.

Ma questa è un’altra storia, quella di una lotta del movimento operaio e comunista internazionale e della volontà dei popoli di tutto il mondo che non si ferma dinnanzi alle pur immani e dolorose sconfitte, ma che riprende, con rinnovato slancio, facendo un bilancio delle sconfitte del passato, per proiettarsi verso le vittorie del futuro.

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