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Sulla sconfitta in Cile

di Raúl Zibechi

Oltre il 60 per cento di coloro che in Cile sono andati a votare per approvare o rifiutare la nuova Costituzione in cui erano stati riconosciuti nuovi diritti sociali – così come quelli delle donne, dei popoli indigeni, della natura e degli animali – ha scelto di dire di No. La partecipazione è stata molto alta, anche perché obbligatoria. Il testo, lungo e complesso, non era stato mediato tra i partiti ma scritto da una rappresentanza di cittadini dell’Assemblea Costituente. Da tempo, in un Paese da decenni estremamente diviso, i sondaggi indicavano la più che probabile vittoria dei sostenitori della permanenza della vecchia Carta il cui corpo fondante era eredità del tempo delle macellerie della dittatura di Augusto Pinochet. Eppure, a tre anni dalla grande rivolta del movimento popolare e a soli sei mesi dall’elezione del giovane presidente di sinistra Gabriel Boric, non era facile immaginare una sconfitta tanto netta e pesante. Buona parte degli analisti, per spiegare il risultato, punta il dito sul carattere troppo avanzato del testo, sulla mancanza di moderazione e buon senso e sul rifiuto di giungere a compromessi “ragionevoli” con la cultura razzista e patriarcale della metà dei cileni che non avrebbe mai potuto accettare affermazioni così nette sui diritti di tutti (il 13 per cento dei cileni viene comunemente considerato “indigeno”).

Raúl Zibechi – che da sempre racconta su Comune il punto di vista autonomo dei movimenti popolari, indigeni, anti-sistemici e anti-patriarcali dell’América Latina -, partendo dal presupposto che non è certo quello delle urne il terreno per sconfiggere le culture politiche di destra e che i mondi nuovi non si costruiscono con le leggi, legge in modo molto diverso le ragioni e le prime conseguenze di un risultato doloroso che produce gravi danni perfino oltre i confini nazionali

* * * *

I risultati sono inappellabili. Si tratta di una sconfitta netta e senza riserve, così ampia e potente da mettere in crisi il governo di Gabriel Boric e i partiti che lo sostengono, ma anche il movimento popolare sceso in piazza nell’ottobre 2019 per esigere le dimissioni di Sebastián Piñera e la fine del neoliberismo selvaggio in Cile.

Dalla prospettiva in basso e a sinistra, sentiamo dolore e tristezza per questa sconfitta, ma soprattutto per il percorso intrapreso nel novembre 2019 con l’accordo di pace, che ha spostato l’asse della politica dalle strade e dai grandi viali della protesta alle istituzioni perverse e a partiti che adesso ignorano quanto accaduto o celebrano il trionfo del Rifiuto.

Provo a elecare alcune delle ragioni che possono aiutare ad analizzare quella sconfitta.

La prima è che viene alla luce un profondo distacco tra il governo e l’Assemblea Costituente e i sentimenti di gran parte della popolazione, preoccupata per la sopravvivenza in mezzo all’economia stagnante. Per quanto nobili possano essere state le intenzioni di chi ha redatto la Costituzione, gran parte dei settori popolari prova angoscia per il deterioramento delle proprie condizioni di vita, angoscia che si traduce in quel doloroso sostegno solo del 30% al governo Boric, a distanza di pochi mesi dalla sua assunzione della presidenza.

La seconda ragione viene dal cammino scelto da Boric e dai partiti che lo sostengono, fondamentalmente comunisti, socialisti e coloro che sono raggruppati nel Fronte Ampio. Hanno disarticolato la protesta, sostengono i Carabineros e tutto l’apparato repressivo sin dal giorno in cui sono arrivati ​​a La Moneda, si sono mostrati sottomessi alla imprenditoria e duri, molto duri, con chi aveva continuato a occupare le strade.

Questo cammino si è andato approfondendo fino al punto che l’attuale governo si può confondere con la vecchia Concertación, tende la mano a Bachelet e all’intera casta politica screditata, quella contro la quale anche la popolazione si è sollevata nell’ottobre 2019. I protagonisti della rivolta che erano stati incarcerati non sono mai stati liberati e lo stato di emergenza è stato ripristinato in Wall Mapu, nelle terre dei Mapuche, mostrando una chiara continuità con i governi precedenti.

La terza ragione è che la politica “plebea”, quella in basso e nelle strade, esce duramente sconfitta. Anche quelli di noi che avevano pensato fin dal primo momento che la Costituzione non fosse la strada migliore proprio perché rappresentava la tomba della rivolta, subiscono una pesante sconfitta perché il movimento popolare non potrà continuare ad agire come ha fatto finora e gli sarà molto difficile riprendere l’iniziativa.

Andando avanti, il governo Boric probabilmente svolterà sempre più a destra. Il centro del dibattito si sta ora spostando in parlamento, dove dominano la destra e la vecchia casta progressista che aveva già iniziato a governare tre decenni fa e ha approfondito il neoliberismo. Ciò che resta del mandato di Boric vedrà un governo sempre più lontano dalle promesse che aveva fatto all’inizio, se possibile più repressivo e neoliberista.

A noi quel che più preoccupa è il futuro del movimento popolare. Fatta eccezione per i settori più autonomi del movimento mapuche, le cose si sono fatte molto complesse.

Non si riesce a sconfiggere la destra alle urne, né si fa un mondo nuovo con una Costituzione, sebbene quella proposta fosse naturalmente di gran lunga migliore di quella ereditata da Pinochet. Una recente dichiarazione della Coordinadora di Arauco Malleco (CAM) respinge “il dialogo integrazionista e plurinazionale che richiede, per rendersi possibile, di lasciare intatti gli interessi dei grandi capitali nel nostro territorio” per poi sottolineare che “abbiamo approfondito il nostro progetto politico” , che ruota attorno al recupero dei territori.

In quello stesso testo, in risposta alle critiche del governo e dei suoi partiti, la CAM sottolinea che “il problema non è il nostro progetto di liberazione, ma l’accumulazione di forze che il Si al plebiscito non è riuscito a ottenere per competere” ( https://bit .ly/3BhjtoY ). Quei mapuche si erano preparati a resistere in una situazione di maggior isolamento e, certamente, continueranno ad essere il riferimento etico e politico che erano stati durante la rivolta, quando milioni di persone sventolavano per le strade la bandiera mapuche.

È tempo, dunque, di fare un bilancio, di separare il grano dal loglio e di tornare alla politica dal basso. Non sarà certo un cammino lastricato di rose, sarà in salita ancora per anni, come lo è stato quello per mettere in piedi un movimento ampio dalla fine della dittatura militare.

Continuare a stare dalla parte di chi resiste è il minimo che possiamo fare, soprattutto in questi momenti di sconforto e dolore, quando molti diranno “non c’è niente da fare, non è possibile”, perché continuano a guardare in alto, diffidano profondamente dei popoli e li invitano soltanto a negoziare con i potenti.


Versione originale su Desinformémonos

Traduzione per Comune-info: marco calabria

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