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economiaepolitica

Bolle, ovvero l’eterno ritorno

di Salvatore D'Acunto

Una quarantina di anni fa, nelle “stanze dei bottoni” delle società occidentali si affermò l’idea che per sradicare l’inflazione e favorire la stabilità del Pil e dell’occupazione occorresse smantellare l’apparato di regolazione pubblica e lasciare gli aggiustamenti macroeconomici a mercati finanziari deregolamentati. Quest’idea era destinata ad avere ripercussioni profonde sul funzionamento delle nostre società. Per comprenderne il motivo occorre qualche informazione sulla natura e il funzionamento dei mercati finanziari. I mercati finanziari sono i luoghi dove si negoziano i diritti sui redditi derivanti dalla produzione di merci che non esistono ancora, e poiché non possono esserci informazioni attendibili su ciò che ancora non è, gli operatori tendono a surrogare l’informazione di cui non dispongono con l’osservazione dei comportamenti altrui. Come ebbe a scrivere Keynes in uno dei suoi brani più noti, «sapendo che il nostro giudizio individuale non vale nulla, cerchiamo di ricorrere al giudizio del resto del mondo, che (forse) è meglio informato. Cioè cerchiamo di conformarci al comportamento della maggioranza o della media».[1]

Questa caratteristica propensione all’imitazione ha l’effetto di produrre “bolle”, ossia tendenze al movimento cumulativo dei prezzi alimentate esclusivamente dalle aspettative degli operatori e del tutto sganciate dai fondamentali economici delle attività sottostanti: un aumento dei prezzi delle attività viene interpretato come segnale della generalizzata fiducia in ulteriori aumenti futuri, e induce quindi una massa di nuovi operatori all’acquisto, rafforzando la tendenza all’aumento dei prezzi. Tuttavia, i rialzi non possono continuare all’infinito. Man mano che la bolla si gonfia, infatti, gli operatori diventano progressivamente più consapevoli della mancanza di basi oggettive del fenomeno, e quindi diventano via via più timorosi di una improvvisa inversione della tendenza. Non appena appare una nuova notizia ritenuta suscettibile di modificare in maniera significativa le aspettative (e quindi l’atteggiamento) della maggioranza degli operatori, essi tentano di anticipare la prossima inversione della tendenza, vendendo le attività in portafoglio in modo da evitare perdite. In tal modo, essi finiscono per innescare una caduta cumulativa dei prezzi, autorealizzando la “profezia” che ne ha orientato le decisioni.[2]

Durante il processo di caduta dei prezzi, gli operatori cercano di vendere le attività finanziarie in loro possesso e “stoccano” nei propri portafogli la moneta ricevuta in cambio. Non avrebbe infatti alcun senso reinvestirla in attività finanziarie, date le diffuse aspettative di ulteriori cadute dei prezzi. In breve tempo la moneta scompare, e senza moneta i mercati finanziari rischiano di collassare: infatti, chi si è indebitato per comprare attività contando sulla possibilità di rifinanziarsi sul mercato non riesce a far fronte ai propri debiti, e l’insolvenza di un operatore finisce per rovesciarsi a catena sugli altri. Le economie occidentali si sono trovate di fronte a questa situazione varie volte nell’ultimo trentennio: la crisi asiatica, il crollo dei titoli tecnologici, la crisi dei mutui subprime, la crisi del debito sovrano in Europa. Fenomeni apparentemente diversi, ma legati da questa matrice genetica comune.

Di fronte al rischio del collasso dei mercati finanziari, la soluzione adottata dalle autorità monetarie è stata sempre “stampare” nuova moneta e iniettarla nell’economia. Al di là della varietà delle denominazioni adottate nel linguaggio mediatico (Greenspan put, Quantitative Easing), la sostanza è identica: comprare le attività finanziarie che nessuno vuole più con moneta creata con un mero “tratto di penna”. Del resto, se si attribuisce ai mercati finanziari il potere di vita o di morte sull’economia, è giocoforza che i mercati finanziari vadano salvati ad ogni costo, anche al costo di creare moneta che non ha alcun riscontro nella ricchezza reale esistente.

Il problema è che quando si crea moneta che non ha riscontro nella ricchezza reale esistente, non si risolve il problema, ma semplicemente si prende tempo e si sposta la contraddizione su un altro punto del sistema. Gli operatori finanziari (in particolare grandi banche, istituzioni di credito immobiliare, hedge funds) immagazzinano la moneta creata dalle banche centrali e aspettano una nuova occasione propizia per investirla, e non appena si crea una nuova bolla utilizzano quella liquidità “stivata” nei loro forzieri per cavalcare l’onda.[3] La storia finanziaria degli ultimi venti anni è in gran parte fatta della reiterazione circolare di questo schema: ogni volta che le banche centrali (in particolare la Fed, dato il ruolo del dollaro nell’economia globale) hanno iniettato moneta nel sistema, quella moneta è rimasta “dormiente” per un pò, fino a quando non si è materializzata una nuova opportunità speculativa da sfruttare: che si trattasse della bolla dei tecnologici, della bolla immobiliare, del rastrellamento di terre coltivabili in Africa e Asia sud-orientale (land grabbing) o dell’acquisto di scorte di petrolio e gas non fa alcuna differenza per gli investitori, interessati soltanto ai guadagni realizzabili sfruttando il movimento cumulativo dei prezzi.

Tuttavia, dal punto di vista macroeconomico una differenza c’è, ed è anche molto rilevante: fino a che la liquidità precedentemente stoccata viene impiegata su mercati in cui si negoziano titoli di proprietà di imprese o immobili, l’inflazione dei prezzi che ne risulta rimane a sua volta confinata dentro quel “recinto”; quando invece quella liquidità si riversa su mercati in cui si negoziano scorte di materie prime (o diritti sulla produzione futura di materie prime), gli aumenti dei prezzi che ne conseguono si “incorporano” nei prezzi delle merci la cui produzione richiede l’impiego di quelle materie prime. Questo è il motivo per cui la bolla dei tecnologici e la bolla degli immobili hanno prodotto fasi di espansione economica senza inflazione, mentre la bolla del gas sta determinando aumenti generalizzati dei prezzi dei beni di consumo.

La scommessa delle autorità di regolazione nel trentennio alle nostre spalle è stata che la liquidità creata per sostenere i mercati finanziari rimanesse sempre lontana dai mercati delle materie prime. Alla luce delle vicende recenti appare tuttavia evidente come l’esito di quella scommessa dipendesse crucialmente dall’assenza di tensioni geopolitiche significative. Non appena le tensioni geopolitiche hanno creato aspettative di future restrizioni dell’offerta di alcune materie prime cruciali per la produzione industriale, la liquidità rinchiusa nei forzieri delle banche si è riversata sui relativi mercati, alimentando una bolla di dimensioni significative.[4] L’inflazione dei prezzi che osserviamo in queste settimane non è dunque niente altro che il risultato della sovrapposizione dell’occasione speculativa creata delle tensioni geopolitiche e dell’abbondanza di liquidità derivante da venti anni anni di Greenspan Put e Quantitative Easing.[5]

Dovrebbe quindi apparire evidente – alla luce dell’attuale congiuntura geopolitica – che lo schema della regolazione macroeconomica andrebbe ripensato in maniera radicale. In assenza di significativi sforzi diplomatici in direzione di un raffreddamento delle tensioni internazionali, è infatti inevitabile che le aspettative si orientino nel senso di una crescita dei prezzi delle materie prime e che le tendenze conformistiche degli operatori finanziari ne accentuino la dinamica ben oltre i ritmi giustificati dai fondamentali. Pertanto, in questo contesto, piuttosto che frenare l’inflazione, i mercati finanziari deregolamentati finiscono per accentuarla.

Sembrano pertanto sussistere argomenti abbastanza seri in favore di una significativa restrizione del ruolo allocativo dei mercati finanziari. Purtroppo, pare che i governatori delle banche centrali abbiano in mente un modello diverso, che coniuga una rinnovata centralità dei mercati finanziari con un’intonazione restrittiva della politica monetaria. Un paio di settimane fa, nell’ormai tradizionale simposio di Jackson Hole promosso dalla Federal Reserve Bank di Kansas City, il presidente della Fed Jerome Powell ha esplicitamente indicato ai suoi colleghi la consueta ricetta per il contrasto all’inflazione basata su correlativi movimenti dei tassi di interesse.[6] La Banca centrale europea si è rapidamente adeguata a tali indicazioni, aumentando di uno 0.75% i principali tassi di rifinanziamento.[7]

Che si possa contrastare l’inflazione con la sola politica monetaria restrittiva è un’antica illusione dell’ortodossia. Le sue radici affondano nella proposizione nota come teoria quantitativa, idea che periodicamente si ripresenta nel dibattito sotto abiti sempre nuovi. L’evidenza empirica sull’argomento è tuttavia abbastanza concorde nel considerare le restrizioni monetarie sostanzialmente inefficaci allo scopo, soprattutto quando le tensioni inflazionistiche originano dalla lievitazione dei costi.[8] Le banche centrali possono comprimere la dinamica dei costi solo indirettamente, ossia provocando una recessione di intensità tale da restringere violentemente la domanda di risorse produttive. Inoltre, nel caso di specie l’efficacia di queste misure è resa ancora più aleatoria dalla dinamica caratteristicamente speculativa che è all’origine della lievitazione dei costi: finchè gli speculatori rimangono convinti delle propensioni “belliciste” dei governi implicati a vario titolo nelle tensioni geopolitiche in corso, essi potrebbero continuare a credere nella tendenza al rialzo dei prezzi delle materie prime, e quindi ad alimentarne la crescita a dispetto delle restrizioni monetarie.

Per sortire effetti significativi, l’azione delle banche centrali dovrebbe quindi essere talmente energica da convincere gli speculatori della sua intenzione di frenare la crescita dei prezzi delle materie prime anche a costo di desertificare il paesaggio industriale. Una prospettiva decisamente inquietante, soprattutto per economie come quelle dell’Europa mediterranea, il cui tessuto produttivo è stato già messo a dura prova da un quindicennio particolarmente difficile.


Note
[1] Cfr. J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Quarterly Journal of Economics, 51 (2), Febbraio 1937, trad. it. in G. Lunghini (a cura di), La fine del laissez-faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, p. 126.
[2] Sul processo di formazione delle aspettative sui prezzi delle attività finanziarie e sul modo in cui queste interagiscono con la dinamica dei prezzi effettivi, cfr. A. Orléan, De l’euphorie à la panique. Penser la crise financiére, Éditions Rue d’Ulm, Paris, 2009.
[3] Secondo due autorevoli commentatori, nel ventennio della sua presidenza della Fed, Greenspan avrebbe sistematicamente «attenuato gli effetti di una bolla creandone una del tutto nuova». Cfr. N. Roubini e S. Mihm, La crisi non è finita, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 93.
[4] Circa la natura “speculativa” dell’inflazione dei prezzi delle principali materie prime nell’ultimo semestre, si veda A. Fumagalli, La dittatura della finanza e il mercato del gas, Effimera, 3 settembre 2022, http://effimera.org/la-dittatura-della-finanza-e-il-mercato-del-gas-di-andrea-fumagalli/.
[5] In tal senso propendono alcune interpretazioni delle pur lievi tensioni inflazionistiche del primo decennio del nuovo millennio. Cfr. ad esempio M. Amato, L. Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo, Donzelli, Roma, 2012, pp. 107-110.
[6] J.H. Powell, Monetary Policy and Price Stability, intervento al simposio “Reassessing Constraints on the Economy and Policy”, Federal Reserve Bank of Kansas City, Jackson Hole, Wyoming, 26 August 2022, https://www.federalreserve.gov/newsevents/speech/powell20220826a.htm.
[7] Banca Centrale Europea, comunicato stampa dell’8 settembre 2022, consultabile al sito https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2022/html/ecb.mp220908~c1b6839378.it.html.
[8] Al riguardo, si rinvia al ben noto dibattito sugli effetti degli esperimenti monetaristi degli anni ’70. Si tratta di una letteratura sterminata, di cui è quindi impossibile rendere conto in maniera esaustiva. Solo a titolo indicativo, si segnalano N. Kaldor, The Scourge of Monetarism, Oxford University Press, 1982; R. Dornbusch, Sound Currency and Full Employment, in J. Shields (ed.), Conquering Unemployment: The Case for Economic Growth, Palgrave Macmillan, London, 1989; A. Glyn, Capitalismo scatenato, Brioschi, Milano, pp. 53-62. Per una rassegna ragionata del dibattito, cfr. N.M. Healey, L’esperimento monetarista del 1979-1982 nel Regno Unito: perchè gli economisti continuano a non essere d’accordo, Moneta e Credito, 41, 1988.

*Università della Campania “L. Vanvitelli”. Desidero ringraziare Emiliano Brancaccio per gli utili suggerimenti ad una versione preliminare di questo scritto.

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