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Vince la Meloni, perde, ancora una volta, il draghismo

di Piccole Note

Per commentare le elezioni italiane usiamo una nota di Dagospia, che, a parte rari spazi di libertà, rappresenta la voce del padrone e ne è, a volte, l’espressione più Intelligente.

“La vittoria di Georgia Meloni è il successo del partito che era all’opposizione del governo Draghi. Il voto segnala il tramonto di Berlusconi, ormai votato alla sua ridotta di Fedayn, e la fine del progetto Lega nazionale (Salvini ne esce devastato). Il Pd è tramortito e rischia di scoppiare senza identità né veri alleati, ha consegnato la sinistra al camale-Conte versione Malenchon. I due ego-bulli Calenda e Renzi pompati dai giornali, non hanno sfondato. Ora la ducetta dovrà governare con due alleati imprevedibili (i cui voti sono indispensabili. La palla passa a Mattarella: sarà lui a decidere i ministri e a dover evitare guai all’Italia”.

 

La sconfitta di Draghi

Giudizio condivisibile in parte, in particolare laddove registra che queste elezioni rappresentano l’ennesima sconfitta di Draghi, dopo quella del Quirinale e di Palazzo Chigi.

Oltre alla scontata vittoria della destra, questo appare il dato più importante, confermato dalla sconfitta della lista che vedeva accoppiati il mostro di Firenze e il viveuer dei Parioli e della loro agenda Draghi (cioè il nulla cosmico). Dovevano essere il nuovo centro nazionale, ne è uscito il solito, effimero, centrino.

La debacle di Draghi è sancita anche dalla rinascita dei Cinque stelle, che i media mainstream e i poteri che da cui dipendono avevano dati per morti, contribuendo non poco affinché tale profezia si avverasse.

La loro rinascita è iniziata esattamente dopo la rottura con il governo Draghi, con il pendant della scissione di Di Maio e accoliti (per fortuna dell’Italia e del mondo, il ministro degli Esteri più insulso del globo, sebbene osannato dai media mainstream dopo la conversione draghista, è fuori dal Parlamento).

Insieme a Draghi, quindi, hanno perso tutti i media, compreso Dagospia, che per anni l’hanno esaltato come genio indispensabile, additandolo come l’unico timoniere in grado di salvare l’Italia. Un trattamento finora riservato solo al Duce (a proposito di fascismo e post fascismo).

Così veniamo al Pd a guida Letta, che non è affatto vero, come annota Dagospia, che si sia presentato al voto senza una chiara identità. L’ha avuta eccome, avendo sposato l’agenda Draghi e l’atlantismo senza limitismo e avendo ridotto l’ex partito della sinistra italiana a una fattispecie sub-coloniale del partito democratico americano, che la sinistra non sa neanche cosa sia (non per nulla la gran parte dei suoi esponenti stava con gli schiavisti del Sud contro Abramo Lincoln).

Così, al netto del teatrino della narrazione mainstream (che nelle cronache di ieri sera ha raggiunto il massimo con gli schemi che comparavano i voti del centro-destra e di un asserito, quanto inesistente, centro-sinistra), questa tornata elettorale ha visto, nel duello tra i due partiti maggiori, il confronto tra due destre, quella nazionalista e quella di cui sopra, con la seconda uscita sconfitta.

Resta da vedere se, dopo la più che probabile estromissione del nipote di Gianni Letta, il partito tornerà a essere l’aggregatore pregresso: una “Cosa” – per restare alla storia di tale forza politica – che comprenda anche le istanze della sinistra residuale, intra ed extra-partito, che pure esistono benché, al solito, divise e divisive.

 

La vittoria della Meloni e il centro-destra

La sconfitta di Salvini era ovvia, si trattava solo di osservarne le proporzioni: se disfatta, come sembra, o contenuta. Tale sconfitta ha due cause. La prima è che certo potere transnazionale voleva distruggerlo, sia perché si era più esposto nel contraddire il dogma delle sanzioni anti-russe, sia perché la vittoria della destra è più gestibile – e più attaccabile – se si deve contrastare una sola forza. Per questo, mentre il contrasto alla Meloni è stato duro, ma fino a un certo punto – anche perché ha saputo modulare i suoi messaggi di politica estera -, quello alla Lega è stato alzo zero.

Ma la sconfitta di Salvini, e sua personale più che della Lega, ha anche il motivo accennato da Dagospia: la sua spinta a trasformare la Lega in un partito di destra nazionalista ha fatto sì che l’elettorato di riferimento, con il crescere dell’alternativa, abbia preferito l’originale alla fotocopia.

Quanto alla Meloni, a lei è toccato in sorte di portare al governo un partito in cui molti dei quadri si sono formati nei variegati ambiti neofascisti. Pensare, però, che sia questo ciò che preoccupa il Potere che attualmente guida l’Occidente è ingenuo.

Basti pensare all’appoggio incondizionato al neo-nazismo ucraino e alle pulsioni fasciste proprie dei neoconservatori americani. Quanto al nazionalismo, va tenuto presente che non c’è sul pianeta un partito più nazionalista del partito democratico Usa, il cui programma dichiarato è l’egemonia degli Stati Uniti sul mondo.

E nazionalista è anche ormai l’anima della Ue. Infatti, sebbene dopo la guerra ucraina sia stata incenerita la sua riduzione a una proiezione della Grande Germania, i suoi incendiari hanno badato bene di salvare la struttura modellata su tale prospettiva, essendo essa funzionale ai loro scopi, che sono quelli di subordinare, tramite la Nato e altro, la Ue agli interessi statunitensi.

Così, al netto del teatrino mainstream, la Meloni troverà grande agio se sarà funzionale alle linee guida dettate dai poteri di cui sopra, (che chiedono anche di preservare, nonostante il rigetto degli italiani, Draghi e la sua fantomatica agenda), mentre troverà contrasto, interno e internazionale, se deraglierà da esse. Questa la grande incognita, strettamente correlata ad altre che gravano sul mondo, in particolare la crisi ucraina e le elezioni di midterm.

Chiudiamo con il simpatico cenno di Dagospia sulla “ridotta di Fedayn” di Berlusconi, il quale, al tramonto della sua vita politica, è riuscito comunque a incassare un risultato, nonostante la defezione di gran parte del suo partito, quella che faceva riferimento a Gianni Letta (cioè tutta la struttura di Forza Italia). Durerà quanto durerà, con possibili defezioni postume, probabili per un partito che non sembra avere un futuro, ma tale risultato consentirà al Cavaliere un’ultima cavalcata, scevra dalla tutela di Letta.

Al netto del risultato elettorale e delle sue incognite, resta inquietante la chiusa della nota di Dagospia, per quel cenno al fatto che sarà Mattarella “a decidere i ministri”… il media in questione, abbiamo scritto in esergo, è voce del padrone e, nel caso specifico, una voce rozza e brutale.

La Costituzione, che indica le prerogative della Politica e quelle del presidente della Repubblica, nata nel dopoguerra proprio per preservare l’Italia da una ricaduta nel buio degli anni pregressi, è ormai ridotta a carta straccia e a tale miserrima condizione l’hanno ridotta non i post-fascisti, finora marginali al potere, quanto quelli che in questi mesi hanno allertato sul pericolo fascista. Tale la situazione della nostra colonia, in attesa di quanto riserva il futuro.

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