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La meritocrazia e il governo dei migliori

di Francesco Sylos Labini

Si sente spesso dire che i migliori governanti sono i tecnici più preparati, magari con un Ph.D in una delle “migliori università americane”; anzi per essere sicuri che i migliori emergano dalle urne c’è anche chi propone sia necessario un esame per ottenere la “patente” per votare: sono le naturali richieste di chi aspira ad una società meritocratica. Se si fosse letto e compreso il libro del sociologo inglese Michael Young, “L’avvento della Meritocrazia”, si sarebbe molto più cauti. La meritocrazia di Young è descritta come una società spaventosa in cui la ricchezza e il potere sono distribuiti in base al rendimento scolastico o ai quozienti di intelligenza o a qualche misura di “superiorità” intellettiva. Young argomenta che la casta che viene così selezionata sarebbe ancora più chiusa e impermeabile delle vecchie caste che sostituisce. In questa società, i valori del mercato e della competizione entrano in ogni aspetto della vita sociale, a partire dall’istruzione elementare e la meritocrazia ha un duplice obiettivo: da un lato rappresentare il criterio di base per selezionare i tecnici più efficienti necessari alla società e alla sua economia, dall’altro fornire la giustificazione morale per le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza che necessariamente si creano.

La meritocrazia è un sistema che fa emergere la casta degli autoproclamati “migliori” e che ne consolida il potere. La prima critica alla società meritocratica è che il merito senza pari opportunità consolida il privilegio perché chi nasce più ricco ha un vantaggio iniziale che generalmente aumenta nel tempo, così che “i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”; tuttavia, un’altra più sottile ma importante critica riguarda la definizione e la misura del “merito”.

Se governare una nazione è come amministrare un condominio, basta selezionare i “migliori” per il ruolo guida nella società. Il problema è come misurare la “bravura”. Come ha sottolineato il paleontologo Stephen J. Gould, il quoziente di intelligenza non misura l’intelligenza, ma solo la capacità di risolvere rapidamente una serie di problemi di un determinato tipo. Per misurare l’intelligenza in modo affidabile, bisognerebbe prima definirla in modo inequivocabile, ma è molto discutibile che esista un solo modo per farlo. Lo stesso problema si presenta ogni volta che per misurare una certa qualità usiamo un surrogato che si possa quantificare.

Per ovviare a questo problema una soluzione è che chi nella società è più competente lo ha dimostrato in termini di successo economico in una certa professione, (con il corollario che quelli che hanno fallito, che magari vivono con il reddito di cittadinanza, non dovrebbero nemmeno votare). Il problema in questo tipo di selezione del “bravo” è stato teorizzato dallo psicologo canadese Laurence Peter negli anni Sessanta che ha introdotto una tesi apparentemente paradossale, il «principio di Peter», secondo cui «in un’organizzazione gerarchica, ogni dipendente tende a salire di grado fino al raggiungimento del proprio livello di incompetenza». In altre parole, per soddisfare un ipotetico criterio meritocratico, i membri che dimostrano doti e capacità nella posizione che occupano sono promossi ad altre posizioni più in alto nella scala gerarchica. Questo tipo di processo si arresta solo quando essi accedono a una posizione per la quale non dimostrano di possedere le necessarie capacità, e perciò la loro carriera si ferma definitivamente quando hanno raggiunto il livello al quale sono incompetenti. Per fare un esempio non a caso, un ricercatore con molti articoli scientifici può diventare un ministro catastrofico. Questa dinamica paradossale, ovviamente, non favorisce l’efficienza dell’organizzazione.

La conclusione è che in politica i “migliori” non sono coloro che hanno chissà che titoli e che sarebbe meglio introdurre una patente per votare. La politica è scontro tra interessi diversi, quello che va valutato quando si vota non è il numero di lauree o dottorati o il conto in banca dell’elettore o del candidato, ma quale tipo di politica e quali interessi si vogliono sostenere: l’apparente veste tecnico-scientifica è solo una maschera per depoliticizzare l’azione di governo. La legittimazione del governo “dei tecnici”, oggi diventato dei “migliori”, è basata proprio su un ragionamento che, come la società meritocratica di Young, pur partendo da premesse verosimili dà luogo ad una realtà da incubo.

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Articolo basato sull’intervento tenuto alla Conferenza “The Economy of Francesco” Assisi September 2022

Title “Meritocracy, evaluation, excellence: The case of universities and research”

Abstract “According to the current paradigm, meritocracy in education would have a dual role: on the one hand, that of representing the fundamental criterion through which the most efficient technicians needed for society and its economy are selected; on the other hand, that of providing the moral justification for the inequalities in the distribution of income from work that necessarily arise. It seems, therefore, that behind the word meritocracy lies the instrument used to justify the growth of inequalities. We will examine how meritocracy, preconceived as a dystopia by the English sociologist Michael Young, is declined in a modern key through what we will call techno-evaluation: we will discuss how it is implemented in practice, particularly with regard to research and universities, under the illusory motivation that the centralization of resources on a few educational and scientific excellences reduces waste and improves quality.”

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