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cumpanis

“Il colore del vuoto”

di Sergio Leoni

Il colore del vuoto, di Alberto Sgalla, già autore di diversi saggi di filosofia della politica, come recita la copertina del volume, è il suo primo romanzo, o comunque il romanzo di esordio (2020) per le edizioni di Transeuropa, una casa editrice che ha avuto l’indubbio merito di proporre tutta una serie di scrittori, giovani o alla loro prima prova. L’ambientazione del romanzo, anche se non detto esplicitamente, è quella della città (Ancona) e dei suoi dintorni dove vive Alberto Sgalla e che sono riconoscibilissimi per chi, come chi scrive, ci vive da sempre.

Il periodo in cui poi si colloca la vicenda umana narrata in queste pagine, è quella degli anni immediatamente a ridosso di quello che è ormai comunemente definito come il “riflusso”, periodo che si colloca, per grandi linee, sul finire degli anni ‘70 e gli inizi degli ‘80. Periodo certamente di grandi delusioni per una generazione che si era proposta di cambiare il mondo, che quel mondo, almeno su un piano culturale molto generico, in parte l’aveva davvero cambiato, e che ora si ritrovava a vedere riaffiorare e riprendere forza tutta quella visione della società che aveva combattuto per anni.

In questo libro, peraltro, la politica, strictu senso, compare unicamente nel primo capitolo con la descrizione, puntuale come può solo esserla quella fatta da chi, come l’autore, l’aveva vissuta in prima persona e in un ruolo certo non di secondo piano, se considerato al livello cittadino, di un corteo, di un volantinaggio, come usava al tempo, e lo sciogliersi non soltanto di una manifestazione ma di un mondo e di rapporti umani e sociali.

“Noi, sempre troppo giovani rispetto al mondo, ma ormai spossati, ombre diafane…” e “Dove andare se non c’è più un altrove da cui ricominciare, se non c’è più l’energia dei moti a far vibrare in un grido di sfida la pena che langue?”

La sera stessa il protagonista, sulla cui possibile identificazione con l’autore non dirò nemmeno una parola, se ne va al night, a vivere, o a sopravvivere, quella che nel corso del libro si chiarirà essere ormai non una seconda vita ma una scelta di vita diversa.

Scrivendo e ambientando un romanzo in un periodo storico tutto sommato abbastanza vicino nel tempo da poterlo considerare appena un po’ sfasato rispetto all’attualità, il rischio sembra essere quello, appunto, di dare al testo un valore e un senso troppo legato, direi perfino appiattito, su quella stessa attualità che in fondo non può che essere inevitabilmente diversa. E che lo è non solo cronologicamente, il che appare del tutto logico, ma anche come interpretazione del reale.

Il colore del vuoto, mi pare, non è “datato”, nel senso negativo del termine per cui il libro non può che essere letto e compreso se non in un contesto molto preciso ma anche molto limitato nel tempo, ma certamente è legato in maniera indissolubile ad un sentimento collettivo che negli anni in cui è ambientato il libro, era qualcosa di più che diffuso.

Certo, poi occorre anche chiedersi che cosa tragga da una lettura del genere un lettore non solo dei nostri giorni, ma anche di quei tempi che hanno chiuso un’epoca e che sono anch’essi lontani da noi. Non è, voglio dire, solo un fatto generazionale o di anagrafe. Si tratta piuttosto di un approccio nei confronti della realtà che si è talmente modificato negli anni da far apparire i temi del libro come in un certo modo “estranei” o, peggio, scomparsi o del tutto inattuali.

È naturale che si possa pensare questo se l’approccio a questo libro è, come credo fortemente debba essere, un approccio totalmente “politico”.

Altrimenti il rischio, e non sarebbe un’alternativa ma un travisamento vero e proprio, non potrebbe che finire per definire questo libro poco più che il diario di un libertino (e ammettiamo pure che lo si intenda nel senso migliore del termine), se non, in maniera ancora più divisiva, come un testo nel solco di una tradizione che ha nel sesso e nei rapporti sessuali l’unico metodo di lettura della realtà e della società.

Sesso, in questo libro, ce ne è in abbondanza.

Arriverei perfino a dire che da un certo punto in poi non c’è altro che sesso.

Ma il narrato, il testo in tutto il suo significato, non si rifà in nessun modo ad una tradizione che certo non manca in Italia e che ha i suoi punti di riferimento in un dannunzianesimo estenuato e falsamente eversivo, né al filone, qui certamente eversivo, di De Sade. Non credo sia senza significato la citazione che apre il libro, e inevitabilmente ne dà il “la”: una citazione da non so quale opera di Pasolini, autore che del sesso (la “Trilogia della vita”) ne ha fatto una chiave di lettura che certo niente ha a che vedere, con anche la più versione soft, della pornografia.

Affermare che qui il sesso sia una metafora, una sorta di chiave di lettura della realtà, è insieme una forzatura e un travisamento.

In un’epoca come questa in cui viviamo, oggi, settembre 2022, un libro come questo sarebbe difficilmente accettato. È un segno della regressione cui ci siamo supinamente adeguati. È, un segno della nostra incapacità di “leggere” la realtà.

Se non altro per questo, andrebbe riletto.

Tuttavia non voglio chiudere questo che è sostanzialmente (come sempre) un invito alla lettura, con una frase di circostanza e sostanzialmente scevra da critiche.

La frequentazione con Alberto, scarsa ma solo per colpa mia, non può non esimermi da una critica non sostanziale ma che vorrebbe essere propositiva. Non ho mai creduto, per quel che vale il mio punto di vista, che la critica possa essere (per chi ha la competenza e l’onestà intellettuale per esercitarla) niente di meno che rigorosa. Si tratta, del resto, di una questione di rispetto nei confronti dell’autore. I difetti, i limiti di questo libro non sono così evidenti. Il fatto che questa sia per Sgalla un’opera prima, se non vuole essere una giustificazione per quelle che a volte paiono autentiche ingenuità stilistiche, depone in realtà a favore di un possibile miglioramento che davvero appare dietro l’angolo.

Davvero difficile dire quali sono i punti deboli del libro. Soprattutto perché, preso nel suo complesso, esso “funziona”, qualunque sia il senso che ogni lettore vorrà dare a questo che non è ancora un giudizio.

Per quanto mi riguarda, vedo un limite nelle, a volte ridondanti, descrizioni dell’ambiente che attraversa il personaggio, nel suo insistere su condizioni “meteo” che rispecchierebbero in qualche modo l’“umore” del protagonista, e che la gran parte della letteratura che arriva fino ai nostri giorni, ha ritenuto del tutto superflui o classificati come inutile artificio retorico.

Se posso avanzare un’ipotesi di lettura, propenderei per “leggere” questo romanzo allo stesso modo in cui si ascolta una musica nuova, una nuova composizione di cui si intravedono, da subito, gli spunti più interessanti e solo in seconda lettura si riescono a cogliere aspetti controversi.

Il romanzo, voglio dire, è “potente”, nel senso che non può lasciare indifferenti.

Chi lo legge, immagino provi sensazioni contrastanti.

Questo non è, evidentemente, un merito in sé ma il segno che questo libro di Alberto Sgalla non è sicuramente uno dei tanti testi pubblicati in questi anni da una editoria solo attenta alla vendita immediata e incapace di valorizzare, nel tempo, e sottolineo nel tempo, i veri talenti.

È un romanzo che può e deve far discutere.

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