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Elezioni 2022: fu vera vittoria?

di Marta Mancini

Grecia 2015. Una data da tenere a mente per leggere, con lenti diverse da quelle dei commentatori e degli analisti nostrani, l'esito delle elezioni politiche dello scorso 25 settembre. In quell'anno il terzetto apocalittico-finanziario meglio noto come Troika - formato allora (non sembri pedanteria ricordarlo) dalla BCE di Mario Draghi, dal Fondo Monetario Internazionale di Christine Lagarde e dalla Commissione Europea di Jean-Claude Juncker - impose alla Grecia una serie di riforme di annientamento dello stato sociale in cambio dello sblocco di una tranche di aiuti finanziari. Ciò che ne seguì fu il profondo stato di indigenza di un'intera nazione tanto che, tre anni più tardi, lo stesso Juncker riconobbe, con tardivo e inutile rammarico, di aver calpestato con quelle misure la dignità del popolo greco. Nel frattempo, uscito di scena Tsipras, si era insediato un governo obbediente ai diktat delle tecnocrazie europee. Ma da lì in poi, in altri contesti, le strategie per ottenere obbedienza dagli stati "sovrani" si sono, per così dire, raffinate con il ricorso a soluzioni emergenziali al limite della regolarità. Un modus operandi che Luciano Canfora ha descritto con lucidità e autorevolezza, "resilienti" perfino ai media mainstream.

"Il caso italiano è ben più complicato - scrive Canfora dopo avere ricordato a noi smemorati le tristi vicende greche - L'Italia è pur sempre uno dei paesi fondatori dell'UE (tutto partì con i trattati di Roma del 1957), ed è quindi un pezzo al venir meno del quale crolla tutto il 'domino'. Perciò non si poteva che far ricorso ad un autorevole intervento dall'interno e da molto in alto. Sia nel 2011 che nel 2021 si è capito che l'ingranaggio su cui fare leva per cambiare il governo dell'Italia era la Presidenza della Repubblica. Chi ha messo in moto l'operazione ha ben studiato gli spazi di manovra offerti dal nostro ordinamento, pervenendo alla conclusione che una interpretazione estensiva dei poteri e del ruolo del presidente consentiva di procedere al 'cambio' e alla nascita di governi 'consentanei'. La premessa era, ovviamente, che ci fossero, nell'ingranaggio decisivo, figure disposte ad assecondare una siffatta procedura. E non furono deluse." (L. Canfora, La democrazia dei signori, Editori Laterza)

Dopo la caduta programmata del governo Conte 2, il Presidente della Repubblica dichiarava agli italiani l'impossibilità di percorrere la via maestra di nuove elezioni politiche dal momento che le emergenze in atto - sanitaria, sociale ed economico-finanziaria - imponevano di non interrompere con una lunga campagna elettorale l'attività di governo. Il Presidente rivolgeva quindi un appello alle forze parlamentari affinché accordassero la fiducia ad un esecutivo di alto profilo che non si identificasse con alcuna formula politica. Ricordava inoltre la prossimità della scadenza per presentare il piano di utilizzo dei fondi europei e auspicava che ciò avvenisse con largo anticipo per avere il più ampio margine possibile di confronto con la Commissione di Bruxelles per procedere, subito dopo, con la rapida assegnazione dei fondi ai vari dicasteri per la realizzazione delle riforme. Il nome di Mario Draghi aleggiava da anni nelle stanze della politica, di quasi tutto l'arco parlamentare, e la fine del mandato alla BCE coincideva per l'appunto con la fase di maggiore fabbisogno di un efficiente governo tecnico per l'Italia. E Draghi rispose.

A ripercorrere quei passaggi in rapida successione, si coglie tutta la prosaica concretezza del pensiero di Mattarella: partiti politici sfiduciati per palese incapacità e litigiosità, elezioni politiche come inopportuna lungaggine della democrazia parlamentare, commissariamento diretto della Commissione Europea tramite uno dei suoi più valenti tecnocrati e blindatura del programma di riforme per i governi a venire. Il governo dei migliori ha fatto poi la sua parte iniziando con l'inasprimento della politica sanitaria del super green pass, unico in Europa per le mortificanti restrizioni introdotte, e terminando con il coinvolgimento massiccio, unico anche quello per entità fra gli stati membri (secondo solo al ex-UE Regno Unito), in una guerra per ora senza sbocchi e gravata da sanzioni letali per l'economia reale del nostro paese. Terminato il lavoro, l'Italia è stata riconsegnata in tutta fretta al suo destino di obbedienza, ormai assicurato, usando come pretesto, a sei mesi dalla scadenza naturale della legislatura, la debole maggioranza disposta - sì - a sostenere ancora il governo ma non più incondizionatamente.

Mancava solo un piccolo tassello: un perimetro parlamentare sufficientemente "responsabile" per portare a termine senza troppi scossoni il PNRR. La prossima legislatura non vedrà rose e fiori ed è probabile che sarà disturbata nel suo percorso da limature e inciampi, da compromessi al ribasso e da forze della maggioranza in costante assetto ricattatorio. Si tratterà di scaramucce di bottega fra le parti in commedia, differenti solo per un paio di importanti distinguo che diremo in chiusura. Questa sostanziale omogeneità di soggetti, con alcuni altri di rincalzo, è uscita dalle urne press'a poco come vi era entrata, grazie ad alcuni fattori decisivi: i media più seguiti che hanno illuminato e oscurato a comando i diversi soggetti politici; l'apertura di credito internazionale (Giorgia Meloni è stata ammessa perfino all'Aspen Institut); la capacità finanziaria delle forze in campo; il numero ridotto di parlamentari nominati dalle segreterie e, svettante su tutti, nonostante una legge elettorale al limite della incostituzionalità, la data delle elezioni fissata con un margine di tempo esiguo e infausto per formare nuove liste di candidati nella speranza di ampliare la compagine parlamentare. Il diritto dei cittadini ad "associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" (art. 49 della Costituzione) è stato così ulteriormente compresso ai minimi termini con l'esclusione di una parte cospicua del dissenso reale presente nel paese.

Ha dunque vinto la destra di Giorgia Meloni? Stando alle regole del gioco questo è il risultato delle urne ma nessuno può cantare vittoria e chi si straccia le vesti per il fascismo di ritorno, cioè tutta la pseudo-sinistra, non ha capito che il 25 settembre non si sono svolte le elezioni politiche ma un plebiscito in cui ben oltre il 36% dei cittadini ha gridato con l'astensionismo (oltre 16 milioni di cittadini), con le schede bianche, con le schede nulle e con il voto alle formazioni antisistema tutto il profondo dissenso per il modello di società, di economia, di istruzione, di sanità, di fiscalità e via dicendo che viene imposto dall'alto, dopo aver svuotato, con la complicità di una comunicazione priva di contenuti, la reale partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.

Si dirà che non partecipare al voto significa perdere in partenza ed è vero. Ma, anche considerando l'astensionismo strutturale, i numeri parlano e dicono che la partecipazione c'è stata anche da parte di coloro che il voto, in apparenza, lo hanno disperso. Al contrario viene da pensare che hanno usato i mezzi ed il linguaggio che il gioco elettorale mette a disposizione. Tutte le altre forme di protesta, dalle piazze alle reti di solidarietà, ai gruppi di studio e di confronto tra cittadini comuni e molto altro ancora ci sono e ci sono state. Dunque il "no" è stato detto in tutti i modi possibili, in negativo e in positivo, affinché si capisse per tempo che le risposte dei governi tecnici non rispondono alle istanze della società e che la politica dei partiti è colpevolmente sorda. Ed è stato detto anche premiando le due forze politiche che in modi e in tempi diversi quel "no" lo hanno raccolto: FdI, fin dalla prima ora all'opposizione non solo del governo tecnico ma anche alla politica dei vaccini e del green pass; e il M5S che già forte della difesa del reddito di cittadinanza, si è ricostruito abilmente un'identità, a ridosso delle elezioni, osando sfidare il governo dei migliori.

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