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linterferenza

Il razzismo e la partita di pallone

di Ferdinando Pastore

Una domenica mattina qualsiasi, nella routine cadenzata dal tempo dilatato tipico dei giorni di riposo, un apparente shock interrompe il fluire dei pensieri confusi, ancora poco centrati, che accompagnano il primo risveglio. Indonesia. Una partita di calcio, incidenti, più di 170 morti. Il titolo sui siti d’informazione c’è. In prima pagina. Ma nello scorrere della giornata, pian piano, si manifesta un sentimento sinistro. Nel cercare affannosamente resoconti, particolari, ci si aspetterebbe un’ondata di indignazione, di commozione generalizzata. Forum sulla violenza negli stadi. Dirette concitate per individuare la dinamica degli eventi. Il consueto proliferare di esperti mediatici. Profili social con bandiere piangenti da esibire. La dinamica ormai consolidata del giorno lacrimevole di riflessione. E Invece. Invece il fatto si perde nell’accavallarsi delle notizie sportive, delle dirette dai campi, dagli autodromi, dai palazzetti dello sport. Sì il mondo vive un giorno buio. Afferma Infantino. Ma è una dichiarazione che si perde nell’eco delle notizie. Che ha una sua puntualità di prammatica.

Con un po’ di onestà intellettuale rileggiamo la notizia così come l’abbiamo accolta realmente. Tutti noi, comprese le anime più pure. Partita di calcio, incidenti, più di 170 morti… vabbè ma in Indonesia. Insomma con un modesto afflato di empatia. Perché l’Indonesia è lontana? Anche il Canada e l’Australia lo sono. Ma in quel caso il mondo si sarebbe fermato e anche la nostra domenica. Per l’Indonesia la nostra attenzione si fa distratta. Certo dispiace. Ma si può preparare il caffè. Come scatta questa predisposizione d’animo? La memoria torna alle prime immagini di guerra, quelle con le città ucraine spaventate e accerchiate. “Vedete sono come noi” “vivono come noi”. Così annunciavano gli inviati sul campo. Indicavano un vincolo di prossimità. Che non era di vicinanza territoriale. Ma di adiacenza valoriale. Le strade sono le nostre, gli abbigliamenti, i lavori, i centri commerciali, gli aperitivi. Tutto esattamente come da noi. Quella sovrapposizione donava improvvisamente dignità alla vita umana. Ma contemporaneamente la toglieva ad altri.
Particolare questo umanitarismo occidentale. Sembrerebbe condito da un pizzico di ipocrisia. Il globalismo nelle sue innumerevoli sfaccettature propaganda un colonialismo dissimulato. L’arte è sempre quella. Civilizzare. Dove non regnano le nostre sane abitudini, i luoghi in cui si visita turisticamente la povertà, quella che arricchisce la noia derivante dall’obbligo di prestazione individuale, dal nostro osservatorio privilegiato diventano spazi popolati da una sorta di sub-umanità. Lì sostanzialmente si muore come mosche. Ma il giudizio sottinteso è implacabile. Per loro colpe. Il mondo nel quale la morte assume profondità di significato è quello che si adegua allo stile di vita occidentale. Ciò che è distante al massimo va appunto occidentalizzato. Con la globalizzazione dei mercati torna preponderante questa predisposizione d’animo. Il lontano, l’estraneo non è omogeneo al mondo dei diritti, quindi perde una sua caratterizzazione umana. Ciò che è sponsorizzato come fattore di formazione della grande famiglia umana nasconde una passione per l’indifferenza imperialistica.
Robert Castel, almeno a me, ha spiegato come storicamente i vincoli di solidarietà si siano sviluppati grazie a due condizioni. L’appartenenza a una comunità territoriale e la partecipazione al processo produttivo. Ma fu il socialismo a internazionalizzare questa necessità. Proletari di tutto il mondo unitevi aveva questo significato recondito. Nulla a che vedere con l’assenza di confini come oggi interpreta il cosmopolitismo liberale. I vincoli di prossimità, universalmente, diventavano necessità sociale perché le condizioni materiali degli esseri umani non potevano essere addebitate a loro responsabilità. Ovunque i processi di sfruttamento agivano nel medesimo modo. La solidarietà si politicizzava. L’estraneo in questo modo appariva più vicino. Questa spinta fortificò idealmente i processi di de-colonizzazione. Che oggi sono schiacciati da un nuovo colonialismo, impreziosito però da un lessico progressista che esalta l’esportazione democratica di civiltà. Quella globalizzazione che uniforma l’inclusione in messaggio pedagogico ma che al contempo separa i vicini e i lontani in vincenti e perdenti. A meno che questi ultimi non si adattino a un uso e consumo di battaglie politiche interne. Architettura per la conquista di nuovi mercati che disumanizza la morte altrui in uno spirito di noncuranza. Che introietta psicologicamente la mentalità di guerra. Secondo la quale le vittime sono misurabili assecondando una scala di valore. Congegnata per stilare una classifica di ciò che è commemorabile e di ciò che non lo è. Chi muore in seconda serie, si aggira nelle domeniche di festa come un fantasma. E lì scompare.

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