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lafionda

La crisi finanziaria spiegata in 5 punti

di Gabriele Guzzi e L'Indispensabile

In questo articolo, vorrei provare a fare chiarezza sulla situazione finanziaria in Occidente, confrontando l’Italia con gli altri paesi e offrendo alcuni spunti per le prossime politiche nazionali.

Partiamo da due casi per sviluppare il nostro ragionamento su cinque punti. La Germania ha varato un fondo da 200 miliardi di euro, la Gran Bretagna un piano da circa 160 miliardi di sterline. L’obiettivo del primo è creare uno scudo sull’aumento del costo delle bollette. Il piano inglese si propone, oltre allo scudo sulle bollette, anche di diminuire le tasse. Entrambi si appoggiano sostanzialmente su nuovo deficit. Ora, non vorrei entrare nel merito dei due piani ma sul principio che in Italia si vorrebbe contestare. Tale principio si esplica nell’idea che, soprattutto in tempi di crisi, un coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale sia la via meno dolorosa e potenzialmente più democratica per evitare conseguenze disastrose. Se non si ripartirà da questo principio di base si uscirà dalla crisi in forma più povera e diseguale.

Primo punto: la presunta marcia indietro del governo inglese – molto spettegolata dai nostri analisti che sono molto contenti quando un governo viene messo alle corde dai “mercati” – riguarda solo 2,5 miliardi dell’intero piano: il taglio dell’aliquota al 45% sui redditi superiori ai 150 mila sterline.

Una cifra simbolica, molto rilevante per le questioni distributive, ma assolutamente irrisoria rispetto allo sforzo finanziario complessivo. Il centro del piano è invece il sostegno contro il caro bollette (gli inglesi avranno un aiuto sul 50% dei costi energetici), un nuovo piano energetico e il taglio di alcuni aumenti fiscali. Come sempre, in Italia, si riportano le notizie dall’estero per confermare l’agenda interna: “non bisogna infastidire i mercati, guai a difendere l’autonomia della politica, testa bassa, poche storie e seguire i compitini di Bruxelles”. La realtà non è questa. Proviamo a raccontarla.

Secondo punto: l’idea di “non facciamo deficit per non far guadagnare la speculazione”, usata in alcuni stati membri dell’Europa, a livello teorico è anche giusta. Ma non dimentichiamoci che il mercato dell’energia europea, per come è oggi, è il prodotto di vent’anni di liberalizzazioni e privatizzazioni feroci. E non si cambierà certamente in pochi mesi. Il problema è che le famiglie e le imprese devono pagare le loro bollette in questo momento, e a loro cambia poco se la colpa sia o non sia della speculazione. L’obiettivo di breve termine dovrebbe essere invece quello di non creare deserto sociale. Si dovrebbe intervenire con urgenza nell’immediato, aiutando famiglie e imprese con le loro bollette, e lavorare contemporaneamente alla riforma del mercato dell’energia. Si può discutere sull’opportunità del piano inglese, ma l’alternativa “aspettiamo il rialzo dei tassi senza fare deficit” non mi sembra molto più lungimirante. Equivale a produrre una depressione attraverso due canali, quello dell’offerta – per via del rialzo dei costi – e quello della domanda – per via della diminuzione degli investimenti e dei consumi.

Il terzo punto riguarda il problema inflazione. Si dice, in certi ambienti, che fare spesa pubblica in un contesto di aumento dei tassi è controproducente. Da una parte, infatti, le banche centrali cercherebbero di far diminuire l’inflazione; dall’altra, il governo sosterrebbe l’economia facendo “pressione sui prezzi”. Bisogna innanzitutto considerare il fatto che un impegno dei governi per calmierare il costo delle bollette potrebbe avere effetti tutt’altro che inflattivi – soprattutto se il segnale di prezzo sull’energia venisse solo diminuito. In ogni caso, chi sostiene che le autorità fiscali dovrebbero adeguarsi alle strategie abbastanza discutibili della Bce, sta di fatto ammettendo di voler peggiorare una crisi economica epocale senza fare nulla per sostenere i popoli europei. In Europa, infatti, al contrario degli Stati Uniti, l’inflazione non è da domanda ma principalmente da offerta: stanno aumentando i costi energetici. Far diminuire l’inflazione con un aumento dei tassi significa provocare un calo artificiale degli investimenti, creare disoccupazione, far pressione al ribasso sui salari, far diminuire la domanda e, quindi, solo così ridurre l’inflazione. È un approccio che in Europa lo stesso Visco ha in parte criticato. Oggi, il problema è l’equilibrio sociale e finanziario del nostro paese, e far ricadere tutto sulle fasce più deboli non mi sembra una scelta di “buon senso”. Il problema, quindi, è il tentativo delle autorità monetarie di forzare la mano in un contesto di guerra militare, guerra finanziaria, guerra energetica, introducendo anche una guerra economica interna, con milioni di persone che perdono il lavoro e non hanno più lo stipendio per pagare le bollette. Questo riduce l’inflazione, certo, ma riduce anche la qualità della vita delle persone. A questo punto perché non eliminare fisicamente le persone? In questo modo, sono sicuro che i prezzi scenderebbero e anche la Russia non riceverebbe più i ricavi dalle loro bollette…

Il quarto punto riguarda la sostenibilità dei debiti pubblici. In primo luogo, occorre evidenziare che, in un contesto di inflazione a doppia cifra e tassi nominali al 4-5%, gli stati si stanno indebitando a tassi reali pesantemente negativi (in Germania siamo a circa -7%). Questo significa che, sul piano reale, gli stati pagheranno molto di meno di quanto hanno preso a prestito. Una forma di incentivo a indebitarsi. Se poi durante una crisi geopolitica di questa portata, ci mettiamo in Europa a fare discorsi su Maastricht, sul 3%, sul Fiscal Compact, significa che le nostre classi dirigenti sono totalmente annebbiate dai loro schemi e modelli ideologici, tutti stabilmente sconfessati, da non accorgersi dell’abisso che ci precede. Parlando di riforme di lungo termine, un obiettivo dovrebbe essere semmai quello di creare una nuova forma di coordinamento fiscale-monetario che non implichi necessariamente la creazione di bolle finanziarie. Certo. Intanto direi che è necessario dare ai governi la piena possibilità di proteggere adesso le nostre economie.

Il quinto punto riguarda infine il caso della Gran Bretagna, su cui altre considerazioni dovrebbero essere fatte. Limitiamoci a un punto generale, che trascende il caso specifico su molti aspetti – ripeto – discutibile. Cosa abbiamo visto? Il governo ha introdotto un piano fiscale. Il mercato ha incominciato a vendere titoli di stato e i tassi sono aumentati. I fondi pensione inglesi hanno incominciato a ricevere margin call (la richiesta da parte di un broker di capitali aggiuntivi al depositante che ha acquistato titoli a leva). I fondi pensione usano infatti titoli di debito pubblico come collaterali in alcune operazioni speculative, ossia prendono a prestito da un broker per acquisire titoli mettendo a garanzia il valore di titoli ritenuti sicuri, proprio le obbligazioni pubbliche. Il punto è che quando il valore dei titoli di stato cala improvvisamente, chi ha prestato il denaro può richiedere al fondo pensione (o a qualsiasi depositante) di rafforzare il capitale nel cosiddetto margin account, a garanzia del prestito. Quando il fondo ha una leva troppo alta e troppe posizioni aperte, la volatilità sulle perdite e sui guadagni è ovviamente molto alta. Per questo, il sistema finanziario inglese è andato pesantemente in crisi. A questo punto, la Banca Centrale Inglese si è trovata costretta ad avviare un programma temporaneo di acquisto di titoli di stato per non far crollare il sistema pensionistico inglese.

Funzionerà, non funzionerà? Sembra di sì, in quanto il mercato si è stabilizzato e gli acquisti della Banca d’Inghilterra sono già rientrati. Tuttavia, il punto non è questo: il punto è difendere l’idea che, in un contesto di fragilità sociale e finanziaria, il coordinamento tra autorità fiscali e autorità monetarie sia l’unica cosa razionale che uno stato possa fare. Certamente uno potrebbe, e dovrebbe, obiettare sulla struttura dei bilanci dei fondi pensione, e di come anche questo settore di interesse nazionale sia affidato a logiche speculative. Ed è quello che molti analisti hanno fatto. Adam Tooze, ad esempio, scrive che nel recente caso inglese “la posta in gioco non è il dominio fiscale – con la banca centrale [che] segue la guida del governo eletto – ma il dominio finanziario. La banca centrale è costretta ad agire dallo stress dei mercati finanziari.”

Tuttavia, anche qui, è necessario distinguere l’orizzonte immediato con le riforme strutturali di modifica del sistema finanziario. Personalmente, nutro dei seri dubbi che queste classi dirigenti vogliano realmente mettersi a intaccare interessi profondi e radicati, invertendo il trend di privatizzazione e finanziarizzazione che vive il capitalismo occidentale da circa trent’anni. Tuttavia, anche accettando questa improbabile (ma auspicabilissima) prospettiva, queste riforme non sarebbero affatto in contraddizione con un’azione energica e puntuale sull’adesso. L’adesso non può che ripartire da un deficit pubblico importante e da un sostegno pieno delle autorità monetarie, sia sul mercato interno che sul tasso di cambio. Anche perché le previsioni sul futuro sono tutt’altro che rosee (tra pericoli energetici e di vera e propria guerra totale). Mettersi a fare ora ragionamenti raffinati sulla finanza, sostanzialmente per legittimare politiche di austerità, rischia di divenire un esercizio interessantissimo di malafede dietro cui far nascondere le nostre classi dirigenti.

È chiaro che le soluzioni semplici non esistono. E non stiamo asserendo che la Gran Bretagna o la Germania abbiano risolto del tutto i loro problemi. Tutt’altro. Navighiamo tutti in alto mare, tra correnti agitate e pericolose, che potrebbero in ogni caso prevedere forme dirette o indirette di razionamento energetico nell’inverno freddo che ci aspetta. Il punto è non aggiungere a queste turbolenze altre turbolenze, che le nostre autorità politiche introducono artificiosamente. La struttura finanziaria dell’Unione Europea è un ostacolo arbitrario ed esclusivamente politico. La strategia, oggi, dovrebbe essere quella di aumentare la potenza di intervento delle nostre democrazie, e non di diminuirla, soggiogandola a poteri indiretti. Si pensa a volte, tanta la miopia, che l’obiettivo sia proprio quello.

Il punto finale che preme rimarcare è proprio questa distinzione tra due piani d’intervento. Un’agenda democratica dovrebbe auspicare un piano straordinario di sostegno alle imprese e alle famiglie italiane e contemporaneamente lavorare per una ristrutturazione del sistema finanziario ed energetico, sottraendolo a logiche speculative e oramai evidentemente oligarchiche. Bisognerebbe anche riconoscere che queste riforme richiedono una rifondazione generale delle organizzazioni europee esistenti. Bisogna avere oggi l’onestà di asserire che l’Unione Europea è incompatibile con qualunque rilancio democratico del continente. Chi ama l’Europa, deve pensare a un oltrepassamento della struttura ibrida, elefantiaca, iper-burocratizzata, iper-inefficiente, irrazionale e ideologizzata dell’Unione Europea. Ci vorranno mesi, anni, decenni, per far sì che le classi dirigenti si accorgano degli errori compiuti. Solitamente, più l’errore è grande più è difficile riconoscerlo. La forza incontrovertibile degli eventi si procurerà tuttavia di farci cambiare idea, speriamo senza troppi dolori.

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