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doppiozero

Destra e sinistra: politiche senza il futuro

di David Bidussa

Nella discussione che si è aperta su ciò che prefigura la nuova geografia politica all’indomani dell’esito elettorale del 25 settembre si sta assistendo a uno scenario curioso.

Da un lato sta una parte di opinione pubblica e di forze politiche che intravede un percorso di ripresentazione di un’esperienza politica che ha nel suo deposito nodi non risolti di fascismo e dunque si prefigura un’Italia in grigio scuro (riprendo l’espressione da Claudio Vercelli) che non mancherà, soprattutto sul piano dei diritti civili e dei diritti della persona – di riproporre contenuti che appartengono alla famiglia culturale dei fascismi.

Dall’altro, ovvero da parte di chi ha vinto il confronto elettorale, sta la dichiarazione di non sopportabilità di questo timore; dice di aver già fatto i conti col passato; di essersene completamente liberata e soprattutto di testimoniare che la scelta a suo favore dimostra che non ha esami da superare ma che il consenso ricevuto gli dà mandato di non porsi il problema o più semplicemente di fare spallucce e rimandare al mittente quella questione.

Vedo un rischio in questo confronto: un gioco delle parti in campo in cui ognuna afferma una identità di principio, ma non affronta un percorso, convinta delle proprie certezze e pronta a vendere il proprio prodotto.

Da una parte c’è la sicurezza dei vincitori che dunque leggono la propria vittoria come la conferma che il tutto sia stato già fatto e dunque per questo hanno vinto; dall’altra c’è una discussione tra gli sconfitti in cerca di un capro espiatorio che non affronta i contenuti del proprio profilo politico e al più cerca nella certezza dell’antifascismo del Novecento un’identità convinta che quella la salvi.

Le questioni connesse con questa sceneggiatura a più attori opposti e contigui sono almeno due. Le elenco:

la prima: non volontà, da parte di chi ha vinto, di affrontare un processo di sua modernizzazione politica convinto che la propria identità abbia pagato e che dunque qualsiasi richiesta di rinnovamento sia fuori luogo;

la seconda: riguarda un elettorato che in molti contesti si è dimostrato insensibile alla questione della scelta antifascista e che implica perciò un’analisi della crisi politica dei democratici e delle sinistre nell’Italia attuale.

Dunque comincio con la prima questione.

Alcune sere fa, per la precisione il 7 ottobre, il giornalista Francesco Borgonovo di “La Verità” a “Piazzapulita” litigando con David Parenzo (lo scambio si può vedere qui), ha detto che la rivendicazione di Fascismo è solo una manovra volta a incassare soldi da chi non ha altri argomenti se non tirare a campare o vivere alla giornata su un argomento pretestuoso.

Personalmente ritengo che la prima argomentazione non sia vera ovvero sia molto discutibile, e che la seconda sia sostanzialmente inconsistente; e comunque si tratti della risposta di chi non ha voglia di discutere perché riversa sugli sconfitti una questione che invece è sua.

La prima risposta in pratica afferma che agli sconfitti in politica non si deve risposta perché i dati hanno già decretato la vittoria e dunque non sono degni di considerazione.

Ma basterebbe ripercorrere con dovizia di particolari il processo, iniziato nel 2012 nel momento in cui Ignazio La Russa esce dal Pdl berlusconiano, approda poi l’anno seguente, anche per il coinvolgimento in prima persona di Giorgia Meloni, alla costituzione di Fratelli d’Italia, per valutare che cosa è avvenuto e che cosa non è avvenuto.

Fratelli d’Italia nasce dalla convinzione che il Pdl e soprattutto la linea politica di Gianfranco Fini aveva portato all’annullamento dell’identità del post-fascismo italiano. Dunque la scelta politica di fondare un nuovo soggetto significava invertire il percorso inaugurato nel 1993-1994 – al netto del carattere problematico di quel processo –, tornare al bivio di quella scelta per riprendere la strada della continuità che quel percorso aveva messo in questione.

Quella decisione aveva il segno di un «ritorno alle origini» o, ad essere meno drastici, di un «ritorno verso le origini» alla ricerca delle «radici profonde» che, come suona una frase cara a molti esponenti della destra italiana, «non gelano mai».

Processo che agli analisti politici era già chiaro da subito, ovvero all’inizio stesso dell’avventura politica di Fratelli d’Italia. Per esempio si veda quanto scriveva Caterina Paolucci nel 2014.

Dunque il problema non è dare risposta agli sconfitti, ma dare una risposta pubblica di un processo che si dice compiuto, ma che in realtà alle origini si era semplicemente rifiutato di intraprendere. Del resto nel programma esposto nelle tesi di Trieste al secondo congresso nazionale di Fratelli d’Italia (2-3 dicembre 2017) si trova conferma quella volontà quando vengono proposti alcuni elementi strutturali e ideologici che rinnovano elementi culturali del fascismo tradizionale, soprattutto in termini di valori che si potrebbero riconoscere nell’alternativa Appartenenza/identità VS Illuminismo.

Gran parte, se non l’intero impianto valoriale che sta alla base del congresso di Vox tenuto a Marbella nel giugno 2022, non è che una conferma dell’impianto valoriale contenuto appunto nelle tesi uscite dal Congresso di Trieste del dicembre 2017. Non aver affrontato quella partita in un decennio, significa che la volontà di affrontarlo non ci sarà nemmeno dopo.

Questo non implica appiattire il tempo presente a un secolo fa, ma ciò non toglie che se una cultura politica non fa i conti esplicitamente con suo passato culturale, il destino non è ripetere il passato, ma confermare i principi che nel passato hanno prodotto una politica. Un secolo dopo quella politica può indossare nuove vesti, ma non sarà mai estranea a quella cultura. Perché il problema è rimuovere quell’impianto culturale.

Consideriamo ora la seconda questione. Prima di tutto il voto per la destra è un voto di destra? Per certi aspetti sì, ma per altri no. Riguarda sicuramente un voto in fuga da sinistra, ma non è un voto di destra. Significa che ci sono questioni che riguardano i timori della perdita di status, della caduta del proprio livello di vita, ma anche una politica che riguarda la gestione dei flussi migratori che all’interno di un elettorato di sinistra e democratico poteva funzionare in tempi di «vacche grasse», ma non funziona in tempi di crisi.

E soprattutto che risolve sul piano della morale, ma non su quello della politica concreta, le questioni urgenti o altamente problematiche della vita quotidiana. La riflessione a cui, in queste settimane, invita Carlo Trigilia con il suo La sfida delle diseguaglianze sta esattamente su questo punto ed è altamente indicativo, a mio avviso, che quel testo molto ricco di suggestioni trovi difficoltà a farsi strada nella discussione pubblica, come sottolineava anche Mario Ricciardi, sulla scorta della riflessione di Trigilia già avviata nel 2018, sostenendo l’urgenza di una riflessione politica complessiva.

Questo vuol dire che la sconfitta politica è stata sì nei numeri ma ha anche un valore di medio-lungo periodo, e per questo ad essa deve seguire una riflessione strutturale a sinistra e tra i democratici. In prima istanza sulle piattaforme politiche proposte, e, insieme, tanto su leadership credibili, quanto su una presenza sul territorio in grado di proporre politiche che si misurino con le domande presenti.

Perché la sconfitta non è numerica, bensì politica e riguarda la costruzione di un vocabolario politico, di una cultura e di una gerarchia di questioni che diano forma, orientamento e struttura a una piattaforma politica radicalmente rinnovata, per giungere alla quale è indispensabile anche un profondo rinnovamento di luoghi, di temi e di voci che insieme abbiano l’effetto di produrre una proposta politica.

Ma se Sparta piange, Atene non ride. Perché la sfida che tutti abbiamo davanti (gli sconfitti e i vincitori) non riguarda solo come si accontentano gli scontenti o come si consolano i malinconici, ma se ciascuna parte politica e ciascuna cultura politica è capace o ha l’ansia di dotarsi di un futuro che sia molto di più che amministrare la «rendita di posizione» che offre il presente. Perché questo significa pensare un programma in cui il tema non è né correggere né «medicare» il presente, bensì progettare futuro.

Progettare un futuro non sarà conseguente a una postura attoriale. Non significa né andare a Canossa procedendo curvi, né sgranare gli occhi.

Progettare futuro non è un gesto di teatro. È prendere la misura delle sfide di questo tempo e proiettare le scelte da compiere ora nelle loro conseguenze lungo un arco di tempo tra 30 e 50 anni.

Il mondo della politica ha smesso di pensare futuro da almeno venti anni e il problema è diventato tutelare, confortare e salvaguardare il presente.

Provo a dare questo fermo immagine: nel 1973 di fronte alla crisi energetica la sfida era inventare un futuro energetico per domani. A differenza di oggi, nessuno a partire dal 2 dicembre 1973 si mise a piangere se doveva rinunciare all’auto la domenica o ridurre il consumo di fonti derivate dal petrolio. Non era dovuto all’incoscienza. Era dovuto all’idea che quella era una sfida per pensare futuro e il futuro era una dimensione che faceva parte del vocabolario della politica. Poi si può giudicare se quelle scelte fossero responsabili, adeguate, strategiche. Ma questo avviene dopo. Prima di tutto il tema era non farsi vincere dal presente.

Quel termine – «futuro» – è uscito da tempo dal vocabolario politico: basterebbe misurare quanto gli «over 45» sono disposti a pensare in termini di redistribuzione (il che vuol dire rinunciare) per progettare e iniziare a costruire scenari di futuro per gli «under 15».

Ma questo tema non è nell’agenda né politica, né culturale di nessuno. Forse sta in alcune agende di qualche agenzia del terzo settore, ma anche in quel caso con scarsa rilevanza nel confronto pubblico la cui logica è solo «arrivare a sera».

Per queste due generazioni gli «over 45» e gli «under 15» «ha da passà ‘a nuttata» non vuol dire che occorre aspettare che il tempo passi. Vuol dire che dobbiamo applicare volontà, fantasia, creatività, per prendere in carica il presente per pensare e inventare futuro.

Un tempo che non c’è nell’agenda politica.

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