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Elezioni USA: crollo o palingenesi dell'impero?

di Moreno Pasquinelli

E’ molto probabile che queste elezioni di medio termine saranno, come del resto molti commentatori americani ritengono, le più importanti della recente storia degli Stati Uniti. Sulla carta, in palio, ci sono tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti, 35 seggi del Senato, ben 39 governatorati statali su 50, oltre ad una sterminata serie di enti amministrativi e politici locali. Nella sostanza la posta è molto più grande: per usare una nozione tanto cara agli imperialisti americani c’è in gioco un vero e proprio regime change. Non quindi meramente l’ennesima puntata dell’avvicendamento al potere di uno dei due poli storici in cui è storicamente divisa l’élite oligarchica, il democratico ed il repubblicano.

Fu l’inattesa ascesa (2017) del miliardario Donald Trump a cambiare tutto. Fino ad allora il fenomeno del populismo conservatore, animato dagli spiriti dell’anarco-capitalismo da una parte e da certo messianismo americanista dall’altra, era sempre vivacchiato sottotraccia. Con la vittoriosa scalata di Trump al Partito repubblicano quel populismo venne alla ribalta non più solo come grido di ribellione del proletariato bianco e dei ceti medi pauperizzati, ma come opzione sposata da una parte della stessa élite dominante W.A.S.P.

Era il segnale che la società americana era attraversata da una doppia ed esplosiva polarizzazione: non la divisione tra alto e basso ma la scissione in basso e in alto, non la guerra dei poveri contro i ricchi bensì la guerra tra i poveri e tra i ricchi.

Con la vittoria di Biden nelle presidenziali del novembre 2020 l’élite liberal-democratica si era illusa di essersi liberata del fantasma del trumpismo. Mai speranza fu più velleitaria. Questa élite è ora nel panico più totale. Lo dimostrano i toni usati non solo dal cicisbeo Biden e ma pure dal raffinato Obama in questi ultimi giorni di dispendiosissima campagna elettorale. “Trump è il responsabile diretto dell’ondata di violenze che attraversa la società”…“Questa volta è in gioco la stessa democrazia”… “La battaglia in cui ci troviamo è una battaglia per la democrazia, per l’anima dell’America”. L’inossidabile reggitore di moccoli Bernie Sanders segue la stessa trama: “E’ il momento più difficile della nostra vita, sono midterm senza precedenti. Non mi sarei mai aspettato di dirlo, come senatore Usa, ma in gioco c’è il futuro democratico del nostro Paese”.

Chi è al dentro della psicologia politica americana profonda sa che non si tratta di sparate dettate da disperazione, sono frasi che esprimono davvero la radicalità dello scontro in atto. Riconosce quindi, in questa drammaticità di toni, l’influenza sullo stesso mondo liberal degli spiriti di quell’apocalittismo che va per la maggiore nell’opposto variopinto e turbolento arcipelago delle sette neo-evangeliche e cristiano-sioniste. E’ proprio in quell’arcipelago (lo stesso che negli anni ’80 sospinse il reaganismo e poi il suprematismo americanista del “cristiano rinato” Bush J.) che viene la principale forza ideologico-spirituale propulsiva del trumpismo — posto appunto che il suo sostrato politico non è null’altro che un liberalismo fondamentalista e individualista — sorvoliamo per clemenza sull’accusa rivolta a Trump di essere un “fascista”, una fesseria totale. Un mix esplosivo tutto americano. La forza del trumpismo (anche nel suo sottoprodotto rappresentato dal floridian Ron Desantis) si vede anche dal fatto che ha dettato non solo il ritmo delle danze delle elezioni di midterm ma anzitutto i temi centrali della campagna: ancor prima della pur grave crisi economica, e del casino geopolitico mondiale, l’aborto, i temi bioetici, la questione LGBT, il sicuritarismo e il secondo emendamento, il contrasto dell’immigrazione clandestina. Mai il clivage ideologico tra le due principali frazioni dell’élite oligarchica è stato tanto profondo, di mezzo ci sono opposte visioni del mondo, dell’uomo, dell’America.

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Se il trumpismo non è quindi per niente un blocco monolitico, dall’altra parte della barricata quello che di riffa o di raffa sostiene Biden è un coacervo che va da certa destra conservatrice classica alla nuova estrema sinistra, passando per tutte le sfumature del progressismo postmodernista. Non è questa la sede per dissertare sulla profonda metamorfosi subita dalle sinistre radicali americane (ma lo si dovrà pur fare prima o poi poiché ciò che accade oltre oceano sta impattando profondamente anche su quelle europee). No, i movimenti quali Me Too e Black Lives Matter, i fenomeni come la Cancel Culture e il Wokeisme, non vanno presi sottogamba. Posto che essi godono dell’appoggio dell’élite transumanista dei giganti GAFAM (il solo miliardario che da quelle parti va controcorrente è Elon Musk), si deve dire che la loro egemonia, non cade dal cielo ma viene da lontano. E’ il precipitato politico sociale della penetrazione nelle università e nei cenacoli dell’intellighenzia di certa filosofia post-strutturalista e decostruzionista (anzitutto i francesi Lyotard, Foucault, Deleuze, Derrida, ecc), correnti di pensiero che negli USA hanno assunto la forma ancor più devastante dei Whiteness Studies (Studi sulla Bianchezza) e dei cosiddetti Studi (Post-)Coloniali. Di qui il nichilismo iconoclasta con cui si vorrebbe mettere al rogo, assieme all’Iliade e agli Upanishad, assieme a Platone e Confucio, tutte le fondamenta delle diverse civiltà, a cominciare da quella occidentale.

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Sono i segnali, quelli che ci vengono dagli Stati Uniti, di una crisi esistenziale dell’America. La spaccatura non è mai stata così profonda. Nella transizione epocale al cybercapitalismo è revocata in dubbio la supremazia mondiale americana, posto che questa supremazia è oramai non solo una seconda pelle dell’americanismo, è la sua stessa essenza. Senza questa supremazia gli Stati Uniti potrebbero fragorosamante crollare come stato nazione. Attenti dunque, da questa periferiche parti, a non farsi facili illusioni: l’élite oligarchica è sì dilaniata dalla lotta intestina, ma questo scontro, per le province, non promette nulla di buono, poiché esso è tra due concezioni diverse sulla via e sui mezzi per conservare e ripristinare, nel mondo nuovo che avanza, il suprematismo ideocratico americano.

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Per concludere. E’ vero che tutti e due i campi che si contendono oggi il potere dicono di riconoscersi nei sacri valori della rivoluzione e della guerra d’indipendenza dall’impero inglese. Tuttavia, proprio stando alle radici, a fronte di ciò che li unisce ben più profonde sono le ragioni che li divide, e ciò che li divide ha segnato molto più profondamente la storia americana e la psicologia di quel popolo: si tratta della la sanguinosa guerra civile che dilaniò l’America tra il 1861 e il 1865. In quell’inferno che forgiò gli USA come stato nazione si annida l’anima loro, il loro peccato originale.

Diverse sono la maniere in cui può cadere un impero. Una di queste è per implosione. Posto che ciò che accade al centro dell’impero si riverbera sempre nelle sue periferie, chi può escludere che l’attuale lotta intestina diventi guerra civile dispiegata?

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