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Le ragioni dei pacifisti

di Lorenzo Palaia

È bene che i pacifisti, tra i quali mi annovero, rispondano puntualmente ad alcune specifiche accuse ribadite dalla piazza milanese di sabato scorso, la maggiore delle quali è di essere arrendevoli, cioè di piegarsi all’aggressore accettandone la violenza. Può darsi infatti che quella pacifista sia arrendevolezza, laddove si concepisca una forma di irenismo totale che è incondizionata non-violenza, ma in ogni caso non è passività né debolezza. Va infatti ricordato che tale nobilissima tradizione affonda nei primi secoli dell’era cristiana, soprattutto nell’insegnamento dei padri e nell’esempio di molti santi e martiri, ed è stata giustificata nella storia soprattutto con due episodi del Vangelo: quello in cui Gesù dice a Pietro, mentre venivano catturati, «rinfodera la spada, perché chi di spada ferisce di spada perisce»[1], e quella massima in cui lo stesso Gesù invita a porgere l’altra guancia a chi ci dà uno schiaffo[2]. Nella Chiesa dei primi secoli si discuteva se fosse lecito per i cristiani servire nell’esercito, mentre le agiografie e i martirologi sono pieni di esempi di chi preferì accettare il supplizio piuttosto che cedere al male, secondo gli insegnamenti di san Paolo che invitava a obbedire all’autorità civile in ogni caso, anche quando fosse stata persecutoria e ingiusta. Lo stesso esempio supremo della morte di Nostro Signore veniva portato a fondamento di una strada di assoluto ripudio della violenza.

Le cose sono cambiate nel tempo e questa interpretazione lasciò il posto alla teoria della guerra santa contro gli infedeli e poi a quella della guerra giusta verso i propri fratelli. La riscoperta della cultura classica contribuì all’abbandono dell’irenismo finché anche la guerra giusta non venne sostituita con la semplice guerra legittima, cioè giusta sempre a prescindere dalle ragioni. Poi venne il Novecento con i suoi diversi progetti di società internazionali, le cui teorie ispiratrici di pace perpetua non furono mai realizzate pienamente ma imposero almeno fino al 1989 un regime giuridico della pace e della guerra, mentre c’è da chiedersi se oggi le guerre degli americani non stiano cambiando la opinio iuris degli stati in merito alla violenza legittima: lo vediamo, per paradosso, anche nei voti contrari alla condanna dell’invasione russa. La guerra, tutt’altro che scomparsa sulla terra, sembra essere più distruttiva e più disinibita che in passato, perché di nuovo quasi tutti ritengono ragionevole prepararsi al prossimo scontro come fosse ineluttabile. Non è questo il luogo per disquisire sul perché non lo è, ma se si vuole che non lo sia bisogna che i pacifisti non balbettino di fronte all’arroganza di chi crede la violenza inestirpabile per natura.

Più comune è oggi professare una forma di pacifismo mitigato, o se si vuole secolarizzato, che conserva il diritto all’autodifesa. Questa forma è comunque compatibile con il rifiuto della violenza e lo rende più realistico, perché – se prende le mosse dal presupposto che essa non è eternamente ineluttabile e non fa parte del destino dell’uomo – fa allo stesso tempo i conti con la necessità di gestirla per non esserne annientati. La carta ONU (ex artt. 39 e ss.) riconosce questo diritto a reprimere le violazioni della pace e della sicurezza a seguito di un’aggressione, sebbene il dispositivo non abbia quasi mai funzionato (a eccezione della guerra del golfo e di poche altre) per via dei veti in seno al consiglio di sicurezza.

È legittimo, secondo questa prospettiva, che gli ucraini si difendano dall’aggressione. Può esserlo meno che altri stati, soprattutto se molto lontani, si sentano legittimati a intervenire indirettamente fornendo aiuti militari. Ma anche ammettendo questa possibilità, in un’ottica di pace ciò può essere possibile solo al fine esclusivo di difendere le vittime e mai per presidiare presunti valori comuni o per punire l’aggressore, onde evitare di alimentare il conflitto ulteriormente o persino di allargarlo a coalizioni di stati. Affinché un tale aiuto in difesa possa essere messo in essere, sono da fare poi altre considerazioni; proviamo a calarle nel caso particolare.

Ogni fornitura si sarebbe dovuta limitare ad armi difensive ed evitare quelle a lunga gittata. Inoltre si sarebbero dovute evitare le dichiarazioni pubbliche, soprattutto verso l’esterno e soprattutto se tese a disumanizzare l’avversario («Putin criminale» ecc.), mantenendo una ragionevole discrezione su tutta l’operazione. Si sarebbe poi dovuta subordinare qualunque fornitura a Kiev alla loro disponibilità autentica al dialogo (data la loro indubbia parte nell’alimentare i motivi del conflitto), anche richiedendo l’accettazione di alcune condizioni minime (e non invece «decidono gli ucraini», come di recente ha ribadito Macron) se necessario con l’impegno dei buoni uffici dello stesso stato aiutante.

A questo proposito, gli stati e le istituzioni che negoziarono i protocolli di Minsk (OSCE, Francia e Germania) e che non seppero vigilare sul loro rispetto, andrebbero considerati i primi moralmente responsabili dello scoppio della guerra, per cui gli altri che volessero fornire aiuti dovrebbero pretendere che codesti garanti si assumano la responsabilità di aprire le trattative (o che almeno non le ostacolino) senza accettare ingerenze di potenze estranee all’area euro-asiatica. Invece di tutto questo, grazie anche alla sconfitta della Le Pen e al cambio al vertice della cancelleria tedesca, si è lasciato campo libero agli americani che ora – dopo otto mesi di guerra in cui hanno soffiato sul fuoco chiedendo che Putin fosse rimosso – fanno pressioni su Zelensky al fine di tranquillizzare gli alleati europei e far risalire Biden nei sondaggi pre-elettorali: non comunque per far finire la guerra.

Ci si dimentica poi spesso che esiste una terza parte in causa: gli abitanti delle regioni sud-orientali che vogliono in gran parte separarsi da Kiev e vedono i russi come liberatori, mentre vengono bombardati con le armi fornite dagli occidentali; il loro destino dovrebbe essere il tema posto a condizione di qualunque tavolo di trattativa. Solo dopo aver posto tutte queste condizioni si possono aiutare gli aggrediti e solo se i tentativi di trattare con l’avversario con sortiscono alcun effetto si dovrebbe pensare alle sanzioni nei confronti dei vertici politici russi. In caso contrario la pena per i lavoratori e i cittadini europei è quella che gli esperti stanno pronosticando: la deindustrializzazione del continente (scarsità di materie prime e distruzione dei posti di lavoro) che si aggiunge all’inflazione importata per i costi dell’energia e ai tassi di interessi sempre più alti (investimenti fermi e ancora distruzione dei posti di lavoro).

Ma se si inviano armi offensive, senza limiti e senza precondizioni, accompagnate da dichiarazioni al vetriolo, senza lavorare per alcuna trattativa che consideri centrali i diritti dei popoli interessati e lanciandosi in sanzioni che tagliano di netto ogni rapporto commerciale e diplomatico, allora non si sta lavorando per la pace ma per la guerra. Se poi si condisce il tutto con considerazioni ideologiche su fumosi principi che verrebbero così difesi da una presunta aggressione al mondo occidentale, allora si sta preparando non una semplice guerra ma uno scontro tra civiltà, quello che Samuel Huntington previde sarebbe potuto esplodere proprio in Ucraina, linea di faglia tra una presunta civiltà occidentale e una presunta civiltà ortodossa. Ma queste sono le profezie dei consiglieri del principe, e del principe più guerrafondaio che esista, e se le loro previsioni si avverano non c’è da stare tranquilli.


Note
[1] Con importanti variazioni tra i vangeli: Mt 26, 51-52; Mc 14, 47; Lc 22, 50-51; Gv 18, 10-11.
[2] Anche qui cfr. il vangelo di Mt 5, 38-42 (discorso della montagna) con quello di Lc 6, 27-31 (discorso della pianura), che contengono altri precetti analoghi.

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