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lafionda

Possiamo chiamarla democrazia?

di Federico Giusti

Possibile un ‘alleanza neokeynesiana contro il liberismo?

Non sappiamo se la democrazia, prima della sua deturpazione neoliberista, possa essere il punto di partenza per una inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto negli ultimi 40 anni; il dubbio, atroce, è che quel modello di democrazia neokeynesiana sia stata liquidata fin dai primi anni settanta per ragioni economiche e di sopravvivenza del sistema capitalistico che non poteva permettersi la spesa sociale sostenuta nei 30 anni precedenti.

Con la fine degli accordi di Bretton Woods e con la crisi petrolifera dei primi anni settanta si entra in una nuova fase – non che la egemonia economica e finanziaria Usa (che nel 1944 aveva liquidato la supremazia dell’Inghilterra) sia scomparsa, ma per una svolta del capitalismo che per decenni aveva scelto, soprattutto in Europa, un modello di sviluppo riservando forte attenzione alla spesa pubblica e la sostanziale ricerca di un compromesso riformatore con le forze sindacali.

I danni sociali dei 40 anni neoliberisti sono a tutti noti, almeno a quanti vogliano guardare la realtà per quella che è, e vanno dalla perdita del potere di acquisto e di contrattazione allo stravolgimento del sistema previdenziale e sanitario pubblico attraverso le privatizzazioni, dall’indebolimento del contratto nazionale alla ideologia delle elites, la cosiddetta meritocrazia, dalla precarietà lavorativa ed esistenziale all’acuirsi delle disuguaglianze sociali ed economiche.

La denuncia dei danni recati dal neoliberismo necessita di interlocutori lontani dalle nostre posizioni (chi scrive milita in un sindacato di base e in realtà conflittuali riconducibili alla galassia comunista), possiamo trarre solo vantaggi da una critica anche interna al sistema capitalistico che arrivi a denunciare le decennali politiche di attacco alle classi subalterne.

Costruire ponti, sinergie, punti di vista comuni non significa sposare in toto le soluzioni dei compagni di strada che magari pensano ad una riforma del capitalismo compatibile con i diritti umani e i diritti sociali. Ma l’affermazione dei diritti sociali è il risultato non tanto della Carta Costituzionale italiana bensì dei rapporti di forza che avevano prima mosso i Costituenti e poi consentito decenni di democrazia progressiva. E quei rapporti di forza oggi non esistono più, resta indubbio che la crisi della democrazia progressiva sia anche il frutto della onda d’urto dei movimenti sindacali e politici degli anni sessanta e settanta e delle loro rivendicazioni radicali ed anti sistemiche. Quei movimenti, una volta sconfitti, si sono dissolti anche per la feroce repressione che ha introdotto quelle leggi emergenziali ancora vigenti e rafforzate con vari decreti (pacchetti sicurezza, carcere ostativo, decreto anti rave per dirne alcune) ma è indubbia la incapacità di guardare oltre, di superare il dramma della sconfitta politica per guardare alla realtà con pragmatismo “rivoluzionario”

Il rischio che corriamo è di pensare al neokeynesimo come a una soluzione alternativa, e ancora oggi praticabile, al neoliberismo, da qui la ricerca di un modello democratico che negli ultimi 40 anni è stata indebolito e svuotato delle sue prerogative.

Non esiste del resto democrazia senza conflitto ma siamo certi che il capitalismo di oggi possa permettersi la ripresa di una conflittualità diffusa di ordine economico e sociale? E qualora nascesse, ipotesi non remota ma tutt’altro che scontata, una conflittualità diffusa, il suo punto di arrivo potrebbe essere quello di ricostruire un nuovo modello neokeynesiano interno al modo di produzione capitalistico? E’ sufficiente criticare la mano invisibile del mercato e la sua onnipotenza per ritrovarci poi ad agognare la partecipazione delle classi subalterne alla sopravvivenza di un sistema che le sfrutta? Ovviamente non abbiamo una alternativa antisistemica, non sono alternative credibili le teorie della decrescita (felice o infelice che sia) e quelle che propugnano un capitalismo ecologico a difesa dell’ambiente e dei diritti civili. Né risultano credibili le soluzioni elettorali, la spasmodica ricerca di nuovi leader, l’ultimo dei quali, Bonaccini, è l’uomo della autonomia differenziata contro la quale dovremmo attivarci senza remore.

Ci sono ambiti nei quali la collaborazione con settori che un tempo avremmo definito socialdemocratici sono indispensabili, ad esempio una opposizione all’imbarbarimento dei codici penali con decreti legge costruiti su misura per reprimere, criminalizzare e distruggere ogni forma di dissenso organizzato per scoraggiarne le pratiche sindacali e sociali.

L’atavica paura della democrazia come ambito dove le classi sociali meno abbienti hanno maggiore peso sembra animare i propositi e i disegni del neoliberismo ma anche di un certo populismo di destra che, lungi dall’ampliare gli spazi di partecipazione attiva, finirà con l’imporre un modello pater familias, verticistico, economicamente compatibile con i disegni neoliberisti indebolendo un modello di welfare per il quale ci siamo battuti per tanti anni (ridimensionando il reddito di cittadinanza, senza intervenire realmente sul potere di acquisto dei salari e delle pensioni per indirizzare risorse al contenimento della spesa di imprenditori e famiglie).

Una immensa prateria, quella del campo delle idee, dovrebbe imporci dei ragionamenti sensati e delle alleanze a tema, la democrazia liberale per più di 30 anni ha permesso la spesa pubblica e in questo periodo storico sono anche diminuite le disuguaglianze economiche e sociali nei paesi a capitalismo avanzato. Ma questa concessione era in realtà il frutto di un compromesso per contenere il fascino dei movimenti operai verso l’esperienza sovietica e cinese, verso il terzomondismo rivoluzionario. Oggi non esiste più la minaccia comunista e la Cina rappresenta una sorta di capitalismo di stato che rappresenta comunque una minaccia per le economie occidentali ma non scalda certamente i cuori delle classi subalterne.

Mutando i contesti storici anche alcune ipotesi di riforma del modello capitalista hanno perso forza ed efficacia anche se l’arretramento coinvolge le stesse forze conflittuali ed antagoniste ridotte nei numeri (e far dipendere questa debolezza dalla repressione è una risposta inadeguata e talvolta consolatoria per non affrontare i nostri enormi limiti).

Le spese sociali , la sanità e l’istruzione pubblica, il welfare state in generale non stravolgevano la struttura inegualitaria del capitalismo e del suo sistema sociale, aveva comunque il merito di limitarne i danni che poi sono arrivati in maniera devastante con i 40 anni neoliberisti .

Al di là di ogni ragionevole dubbio, andando oltre ogni critica legittima all’esperienza sovietica, dopo il 1989 il capitalismo diventa globale e la sua teoria e pratica sociale viene imposta dalle correnti neo liberiste che tutt’oggi dominano.

Da queste poche considerazioni si evince che la critica al neoliberismo abbia bisogno di alleanze vaste non riconducibili solo all’ambito che un tempo avremmo definito radicale e rivoluzionario.

E’ indubbio che la crisi della democrazia, che definiremo per comodità neokeynesiana, sia anche il risultato della perdita di identità e del venir meno di un compromesso sociale consentito anche dall’indebolimento del sindacato, poi possiamo discutere nel merito della prassi sindacale delle sigle rappresentative che in Italia sono comunque assai moderate anche al cospetto dei cugini francesi e tedeschi che almeno su alcuni punti hanno mantenuto coerenza e un punto di vista non assimilabile a quello delle elites.

La teoria della fine degli Stati ha finito non col rafforzamento di una visione egualitaria e di classe e delle relative prassi politiche; le teorie della “moltitudine” (Impero di T. Negri) hanno abbandonato la contraddizione tra capitale e lavoro pensando che in alcuni ambiti produttivi non fosse possibile alimentare il conflitto. E la identità nazionale, piaccia o non piaccia, è divenuto un cavallo di battaglia del sovranismo di carta per alimentare politiche e teorie xenofobe e razziste che a loro volta hanno indebolito la forza d’urto del sindacato e la tradizionale solidarietà di classe tra produttori.

La crisi della democrazia neokeynesiana e l’avvento del neoliberismo hanno alimentato le disuguaglianze e incredibilmente rafforzato una sorta di neokeynesismo di guerra con alcuni Stati, Usa in primis, a investire risorse pubbliche per la tecnologia militare che poi viene estesa anche in ambito civile rafforzando il potere economico delle elites.

Non abbiamo conclusioni o ricette, il solo messaggio da lanciare è quello di costruire una forte opposizione culturale , sociale e politico alle istanze neoliberiste che per altro alimentano il ricorso alla guerra e rappresentano una concreta minaccia alle classi subalterne e più in generale alla pace tra i popoli. E in questa ottica vanno costruite alleanze sapendo che alcuni compagni di strada potrebbero essere anche gli assertori di una riforma democratica del modo di produzione capitalistico per far ripartire l’ascensore sociale contenendo le disuguaglianze crescenti. Ma come accaduto con il fascismo, le alleanze possono anche sembrare innaturali quando si tratta di abbattere qualche despota.

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