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milanofinanza

Così la guerra in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità

Il saggio di Fantacone e Floros

di Guido Salerno Aletta

Chiarezza espositiva, completezza informativa, fonti ufficiali e dati di prima mano, esaustività nell’esame dei nessi tra dati economici e decisioni politiche. Si legge d’un fiato, ma il saggio di Stefano Fantacone e Demostenes Floros Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità è assai più di un instant book, visto che affronta due tematiche, energetiche e geopolitiche, di estrema attualità e complessità: va tenuto a portata di mano, per inquadrare correttamente le novità che si susseguono quasi quotidianamente nella struttura di un libro che fornisce sia i dati quantitativi che le relazioni sistemiche. È una sorta di scacchiera su cui seguire le mosse dei diversi attori.

L’analisi del libro riguarda innanzitutto la debolezza, se non l’inconsistenza, delle assunzioni economiche su cui è stata basata la sostenibilità del processo di transizione verso le fonti energetiche rinnovabili: adottando uno schema teorico semplicistico, di relazioni di mercato basate su un contesto di concorrenza perfetta, la minore domanda di energie fossili ne avrebbe fatto diminuire progressivamente il prezzo, compensando così il fabbisogno finanziario necessario per gli investimenti nelle fonti rinnovabili.

Di fatto, la decisione di marginalizzare le fonti fossili ha spostato il potere di mercato nelle mani dei produttori, che hanno usato la leva di prezzo a proprio favore, per massimizzare i proventi nel medio periodo, essendo stati disincentivati dall’effettuare nuovi investimenti per aumentare la produzione.

A questi fattori di intrinseca debolezza dello scenario della transizione, si sono aggiunte vicende geopolitiche di grande momento: la guerra in Siria, in cui la Russia e l’Iran hanno giocato un ruolo determinante, ha determinato un rafforzamento della struttura già fortemente oligopolistica della offerta di energia fossile a livello globale.

Al fronte dei Paesi produttori di petrolio, storicamente associati nell’Opec, si sono aggiunti anche quelli produttori di gas: l’Opec+ si è strutturata in modo sempre più coeso con un ruolo sempre più determinante della Russia rispetto a quello dell’Arabia Saudita. E anzi, a nostro avviso, l’indipendenza energetica statunitense acquisita mediante la coltivazione dei giacimenti di scisto con la produzione di shale gas, ha chiuso definitivamente quel proficuo mercato di sbocco e quegli stretti rapporti politici che ne discendevano, per cui i sauditi si sono rivolti sempre di più al mercato cinese, insieme alla Russia e all’Iran.

Per quanto riguarda l’Europa, viene messa in luce la contraddizione tra la forte dipendenza energetica dall’estero, che avrebbe dovuto consigliare a stabilità delle forniture sulla base di contratti a lungo termine, e la liberalizzazione dei mercati al dettaglio che, per favorire l’ingresso di operatori piccoli e piccolissimi che non avrebbero mai potuto stipulare siffatti accorsi, ha favorito gli approvvigionamenti attraverso contrattazioni sui mercati a temine, piattaforme di transazione finanziaria che hanno una forte componente speculativa, e attraverso le aste sul mercato spot del gas che presenta una elevatissima aleatorietà della offerta.

Il punto cruciale non sarebbe quello usato finora, di aumentare il prezzo delle fonti fossili con prelievi fiscali, con la carbon tax e le aste per ottenere i diritti di emissione di CO2, al fine di far emergere il vero costo dell’utilizzo delle fonti energetiche fossili che finora nasconde le esternalità ambientali negative, ma quello di contrastare «attraverso la leva fiscale l’extra rendita - di enormi dimensioni - trasferita ai Paesi produttori di energie fossili».

Di fronte al cartello dei produttori, sempre più coeso e determinato, i compratori si sono presentati in ordine sparso, con rapporti bilaterali, in competizione tra di loro: pagano, così, la cosiddetta Tassa dello Sceicco. Questo tema di enorme complessità politica e strategica gli Usa lo hanno risolto a modo loro, con lo shale gas che ha alti costi economici e ambientali assai elevati. Il Trattato istitutivo dell’Euratom, firmato a Roma il 1° gennaio del 1958, aveva tracciato un obiettivo e un metodo comune: è stato abbandonato scioccamente, senza comprendere che quello dell’energia è un tema basilare, perché non ci può essere competizione equilibrata in un contesto frammentato e disomogeneo.

A partire dal 1992, il sistema europeo si è sempre più orientato alla enfatizzazione della concorrenza piuttosto che alla cooperazione. In Europa, ciascun Paese sta rincorrendo le forniture alternative al gas russo muovendosi alla spicciolata, dall’Algeria al Qatar, dalla Nigeria al Congo, nella consueta illusione di Bruxelles che i problemi comuni sempre più gravi portino comunque a un suo rafforzamento.

Ancora una volta, i nodi irrisolti della costruzione europea non si allentano, ma si stringono sempre di più.

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