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In merito al merito

di Davide Miccione

Come “resilienza”, “valori”, “sostenibilità” e altre superparole utilizzate dal discorso del potere, anche “merito” è una parola-botola, una parola che serve per transitare inosservati da un punto all’altro del discorso o, se si vuole, una parola-cilindro, come quelli truccati dei vecchi maghi, adatti a far uscir fuori conigli e stupire lo spettatore distratto. Queste parole hanno la comune caratteristica di dare un apparente senso alle frasi, di prestarsi alla retorica tenendo lontano il parlante medio (e persino medio-alto) da ogni analisi sul significato e sul reale spazio di applicazione della parola stessa.

“Merito” circola da anni. Circola nei discorsi della destra finanziaria-radicaloide (Renzi, Calenda, magna pars del Pd ecc.), della destra finanziaria-imprenditoriale (Confindustria, i corrieristi ecc.) e ora ritorna nelle titolazioni ministeriali della destra tardo-valoriale. La sua riproposizione, come spesso capita alle parole-botola, causa un dibattito in cui mezze verità entrano in disputa con mezze bugie fino a causare la perdita dell’orientamento in chi assista al dibattito.

In questo caso le questioni discusse ruotano intorno al merito come realizzatore di una maggiore equità morale nella società e come garanzia di una mobilità sociale per le classi più povere. Due mezze verità appunto. È ovvio che una scuola capace di fornire cultura e preparazione di alto livello può essere un’occasione, per chi proviene dalle classi meno abbienti, di spostarsi dalla propria classe sociale ma è altrettanto ovvio che senza una forte politica d’incentivazione per le classi povere (provvidenze, borse di studio, classi numericamente più ridotte, doposcuola di potenziamento gratuiti offerti dalle scuole) la questione del merito si risolve in una pantomima che serve a confermare ciò che già si è preparato debba accadere: la scuola di livello legittima le classi più forti che in essa si muovono meglio al modico prezzo dei pochissimi intrusi poveri che riusciranno, a costo di enormi sacrifici, ad intrufolarsi tra loro.

Il merito inoltre, come certe erbe, è un parola infestante. C’è una questione merito per gli studi universitari (che mal si lega ad affitti, rette e costo dei libri in salita). C’è una questione merito per la selezione della classe docente a scuola e all’università. C’è infine una questione merito per la selezione della classe politica e soprattutto di governo; apparsa, quest’ultima questione, nella geremiade del governo dei migliori, quelli con il curriculum più lungo, splendente e internazionale.

In tutto ciò nessuna riflessione appare su cosa diavolo possa significare questa parola, quale sia la sua essenza (se ve ne è una), di cosa con esattezza si stia parlando. Al massimo qualcuno ricorderà, non a torto, come la tanto abusata parola meritocrazia sia in realtà un conio linguistico creato da Michael Young, nel saggio-romanzo distopico L’avvento della meritocrazia, per descrivere una realtà negativa e poi usato ben oltre i confini semantici e le intenzioni del suo creatore. A ben analizzarla il merito mostra una natura convenzionale e vuota. Si mostra forse più che una “parola botola” una “parola soufflé”, gonfiata fino all’inverosimile. Ad analizzarlo freddamente il merito si mostra per quello che è, una semplice procedura di legittimazione attraverso cui un sistema coopta le persone che possono assicurarne la riproduzione e/o le persone che appartengono già alle classi dominanti o le persone che, pur non appartenendovi, attraverso il superamento di un training “conformante”, non ne minaccino i valori né la leadership. Il sistema di cooptazione viene travestito da competizione basata su dati oggettivi in modo da fornire i titoli morali al cooptato di fronte al non cooptato, prevenirne le proteste e smorzarne il risentimento.

In questi casi però, per cogliere pienamente la natura illusoria del discorso è necessario osservare il procedimento più da presso. Bisogna infatti coglierne la circolarità perfetta che nei vari gangli della selezione (rectius cooptazione) si mette in opera. Ne apparirà allora la natura tautologica: meritevole è colui che viene giudicato avente merito da chi ha in mano la macchina selettiva e merito ciò che fa sì che qualcuno sia meritevole per la macchina selettiva. Per nascondere tutto ciò vanno implementati dei procedimenti che travestano di oggettività la vicenda. L’esempio migliore è quello accademico. Un tempo un docente universitario sceglieva qualcuno per “affiliarlo” a una cattedra e “crearlo” professore aiutandolo a farsi conoscere, suggerendogli linee di ricerca che potessero valorizzarlo, pubblicizzandone con amici e colleghi la persona e le opere e poi brigando affinché la facoltà gli bandisse un concorso. Il processo era apertamente cooptativo e le possibilità di riuscita dipendevano dall’abilità e potenza accademica del professore più che dalle qualità del candidato. La differenza la faceva qualcosa di difficilmente appurabile, cioè le motivazioni che portavano il docente a cooptare qualcuno. Motivazioni abiette, mediocri oppure utilitaristiche o perfino nobili e sublimi. Il candidato alla cooptazione poteva essere scelto per parentela con il docente, parentela con amici, parentela con persone importanti per la carriera del docente, comune appartenenza a gruppi religiosi, politici, massonici, sindacali, attrazione erotica o sentimentale, simpatia umana, compatibilità caratteriale, utilità al lavoro e all’opera del docente, utilità alla vita privata del docente, utilità al dipartimento o alla facoltà, valutazione delle sua capacità, scommessa sullo sviluppo scientifico del suo lavoro, riconoscimento del suo valore teoretico. Ovviamente alcune di queste motivazioni sono accettabili e altre no ma è l’atto della cooptazione in sé che viene oggi visto come immorale e inaccettabile. Il nostro tempo, si sarà capito, gradisce che l’ingiustizia strutturale sia rivestita con grande cura dalla correttezza formale (si veda la questione del politicamente corretto) e che le preferenze siano sostituite dall’ostensione (numerico-quantitativa perlopiù) delle differenze oggettive quando ci sono o dalla loro invenzione quando non ci sono.

Eppure il sistema, che camminava perlopiù sulle gambe e le teste dei singoli uomini, permetteva anche la perpetuazione di grandi scuole scientifiche e la scoperta di grandi geni. In filosofia, ad esempio, molti dei pensatori otto-novecenteschi che riteniamo costitutivi per la disciplina stessa sono stati scelti con metodi che oggi riterremmo degni di una certa attenzione da parte della magistratura. Candidati “imposti” da docenti che ritenevano di poterne con certezza assicurare la grandezza filosofica a volte (si pensi a Heidegger o a Wittgenstein e ai loro grandi sponsor) ancor prima che essi mostrassero le proprie capacità. Una scommessa sulla fiducia, per così dire. Nulla di dimostrabile, nulla di ostensibile, nulla di quantificabile. Oggi questo sistema è stato sostituito da un altro in cui è necessario procedere ad una “raccolta punti” che passa, più che dalla capacità individuale, dal grado di inserimento nel sistema stesso qui rappresentato da alcuni professori capaci di controllare la tonnara delle riviste di classe A, quelle che valgono di più nella raccolta accademica. Si noti come ciò che conta non è più l’articolo in sé ma la sua collocazione nella giusta rivista, dunque non ciò che riesce a fare il candidato ma in che misura la sua presenza è gradita da coloro che in quel momento il sistema lo incarnano. Non più dunque cooptazione da parte dei singoli ma meta-cooptazione in cui alcuni distribuiscono i punti che poi permetteranno di acquisire i titoli per entrare. La strozzatura sale più in alto, diventa più complessa e più difficile da vedersi per chi non se ne intende. Si evita così l’entrata sì di qualche amante ma soprattutto di qualche testa più libera. Come scriveva Sgalambro della scuola: “si impara a stare tutti appiccicati assieme”.

Sintetizzando: Un controllo su base politica (politica accademica, politica degli ordini, politica della cultura eccetera) decide quali sono i titoli che costituiscono il merito e che devono passare per oggettivi approfittando del fatto che nessuno si metterà ad analizzarli. Si attende poi che il sistema messo in atto selezioni progressivamente il tipo umano adatto: docile, capace di restare in cordata, sensibile ai mutamenti del potere, timoroso di perdere il proprio status, dotato di un tipo di intelligenza in grado di ottemperare alle richieste del sistema ma non di porlo in questione, intento ad una continua operazione di autosfruttamento (si veda sul tema il volume di Byung-Chul Han dedicato alla stanchezza). I curricula dei “migliori” sono fatti al 95% di cooptazione che si traveste da competizione, sarebbe ora di vederlo. Ciò non significa che non abbiano qualità me non significa neppure che l’abbiano. Significa che sono affidabili e adeguati al sistema. Nulla su cui sia il caso di costruire una grande macchina retorica come quella del merito.

Lo studio dei titoli e dei curricula mostrerà subito, a chi voglia applicarcisi un po’, questo lavoro di levigatura e sagomatura dei soggetti prescelti e illuminerà sulle vere attese del sistema nei confronti delle varie categorie. Il sistema quantitativo di citazioni in vigore in alcune discipline per i docenti universitari (più citazioni ricevi più sei bravo) ci mostrerà ad esempio come li si invogli a coltivare relazioni e a non prendere posizioni troppo originali o controverse (“allora vuoi proprio che non ti citi nessuno?” ammonirà, ognuno di loro, la voce della coscienza). Forse la cosa risulterà ancora più chiara concentrandosi sui docenti di scuola superiore. Che essi non debbano essere né preparati né colti (a volte lo sono ma sempre, in un certo senso, “contro” il sistema) lo mostra con chiarezza il fatto che né le loro pubblicazioni né gli eventuali incarichi universitari vengono mai presi in considerazione tra i titoli valutabili. La partecipazione a incresciosi master e corsetti a pagamento, spesso on-line e di imbarazzante livello viene invece considerata la via regia per l’ascesa all’interno delle varie graduatorie. Qualora non bastasse a capire, si pensi che il docente di fisica, di storia, di letteratura italiana si troverà sempre davanti a proposte d’aggiornamento che riguardano la didattica in generale o la digitalizzazione o la onnipresente inclusione e mai ai contenuti disciplinari della propria materia. Si ponga mente inoltre a come ogni ipotesi politica di bonus, scatti di carriera o quote premiali mai si riferisca alla preparazione dei docenti ma perlopiù alla loro disponibilità a partecipare a progetti di parasocializzazione o a svolgere uno dei numerosi ruoli paraburocratici che il ministero fa nascere come funghi negli istituti (mansioni solitamente da segretario didattico, da tutor o da animatore socioculturale: questa la appetitosa scelta).

Oppure si pensi alla costruzione dell’intellettuale pubblico italiano costretto a passare, per giungere alla ribalta nazionale, da poche agenzie (case editrici, giornali, emittenti televisive) in diminuzione e blindate alle incursioni dei liberi battitori. Molte grandi case editrici segnalano nei loro siti, apertis verbis, che non accettano che gli si inviino testi: sono autogene. Non ci sono così tanti conformisti per caso: sono il risultato di attente politiche di selezione. Tra essi vi sono anche intelletti di valore perché non è l’intelligenza che disturba il sistema ma l’uso che si intende farne. Non è la presenza del cervello il problema ma di altri vari altri organi più in basso collocati.

Per il resto la cooptazione è sempre stato il sistema principe della riproduzione delle classi dirigenti; inutile dir loro di sceglierli meglio ma ci si risparmi perlomeno la retorica.

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