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lacausadellecose

Un modello di sviluppo o un movimento storico?

di Michele Castaldo

Il compagno Moiso, in “Uno sguardo altro sulla Cina contemporanea e le sue contraddizioni di classe”, una recensione al libro Il sorgo e l’acciaio del collettivo Chuang, su Carmilla, a giusta ragione si chiede: «Mi perdonino gli autori, ma altro che “socialismo”, qui ci troviamo davanti agli stessi problemi sociali e organizzativi emersi durante l’industrializzazione forzata di staliniana memoria, con tutte le conseguenze politiche e di classe che ne derivarono».

In realtà dietro questa obiezione c’è una questione teorica e storica grande quanto una montagna e riguarda il modo di leggere il modo di produzione capitalistico, perché di dritta o di rovescia non lo si analizza in quanto movimento storico mondiale basato sullo scambio e la ricerca continua di una nuova produttività, ma ci si spremono le meningi alla ricerca di nuovi e diversi modelli comparativi del passato nel tentativo di volgerli al futuro, senza mai cercare di mettere in discussione il modo di produrre. Ora il modo di produzione capitalistico si basa su un concetto semplice: « estrazione di plusvalore » e suoi « derivati », che si condensano in « M-D-M’ » e « D-M-D’». Questa modalità produttiva ha consentito per circa 500 anni uno sviluppo e, insieme a tante tragedie, ha portato anche tanto progresso.

Negarlo equivarrebbe a rimuovere l’evidenza storica. Non è questa la sede per analizzare le cause storiche del perché è partito dall’Europa un movimento così imponente. E quelli che lo hanno fatto sono volati sulle ali di un eurocentrismo bottegaio, con risultati spesso di dubbio gusto, e non solo a destra, tanto per essere chiari. Qualche storico assennato e onesto pone in evidenza come la morfologia del territorio della Russia, tanto per fare un esempio, abbia contribuito a ritardare lo sviluppo rispetto all’Inghilterra.

Ora, il liberismo di Hayek (i suoi epigoni alla Fukuyama e Rampini sono poca cosa al confronto) definisce il principio della concorrenza e dell’individualismo come il principio guida dello sviluppo, della ricchezza e del progresso all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale in La via della schiavitù, in polemica tanto verso destra quanto verso sinistra sulla programmazione e la centralizzazione dell’economia. A parte l’appiattimento su destra e sinistra, strumentale quanto si vuole, lui però coglie nel segno: intuisce cioè che il mondo aveva ormai imboccato una ondata di sviluppo che era impossibile tentare di frenare, di programmare o di centralizzare, una sorta di vento contro cui nulla valeva opporre per modificarne il corso.

Il punto in questione è che Hayek non si rendeva, o non si voleva, rendere conto che certe aree geografiche erano costrette a centralizzare e programmare l’economia per accelerare e ridurre il gap con l’Occidente, questo a sinistra, o per recuperare sullo stesso terreno colonialista, cioè di concorrenza, a destra, in modo particolare in Germania e Italia, ovvero con il comunismo e il fascismo. Ma restava valida la sua tesi di fondo, ovvero il vedere il movimento storico del modo di produzione come un movimento ascendente contro troppe chiacchiere su alternative comuniste e/o socialiste a sinistra, quanto di centralismo fascista a destra.

La Cina d’oggi dopo una accelerazione capitalistica straordinaria, nel nome di Deng Xiao ping, è arrivata allo stesso livello degli Usa e dell’Occidente nel suo insieme, con gli stessi problemi: non poter più crescere, un preoccupante calo demografico, un ceto medio cresciuto oltre ogni limite e impossibilitato a riprodursi e vivere come prima e che perciò diviene la variabile impazzita per l’insieme del sistema, un proletariato intontito che non sa dove volgere lo sguardo, e una struttura mastodontica di partito-Stato assediata da quelle stesse leggi del modo di produzione che ne hanno favorito lo sviluppo e oggi gli si rivoltano contro. Gli ultimi esempi sulle piroette di più figli per famiglie, la paranoica gestione della pandemia e lo sblocco delle restrizioni sulle misure ultime intraprese la dicono lunga sulla “potenza della politica” rispetto alle leggi dell’economia, sulla potenza taumaturgica della centralizzazione dell’economia, sulla differenza rispetto all’Occidente e bla bla bla periodico. Si tratta di illusioni a buon mercato per non voler (o saper) prendere in considerazione che questo modo di produzione si sta avviando in modo accelerato verso l’implosione e con essa salteranno anche i cardini su cui si è retto per oltre 500 anni, ovvero lo scambio incentrato sul principio della concorrenza.

Cosa ci dovrebbe distinguere, in quanto comunisti, dal liberismo? I sostenitori del liberismo brandendo i risultati positivi del moto storico nella sua modalità di fondo, ritengono che bisogna seguitare ed anzi accelerare con le stesse modalità per produrre sempre più sviluppo, sempre maggiore ricchezza, sempre nuove scoperte e via di seguito.

Il nostro modo di affrontare la questione non nega i fattori oggettivi che la storia ci pone sotto gli occhi, ma sostiene che essendosi trattato di un movimento storico monista, ha avuto un inizio, un suo poderoso sviluppo e proprio per le sue leggi è arrivato alla conclusione del suo percorso. Dunque in discussione c’è il modo di produrre e i relativi rapporti sociali che da esso sono stati generati. Una nuova modalità di produrre non si sviluppa in competizione con quella attuale basata sullo scambio ma sulla sua morte per consunzione. E chi dovesse sostenere che il capitalismo non può morire, nega la sua natura materiale, le sue leggi, la sua anarchia, la sua impersonalità nella storia.

Non è una nostra volontà di essere comunisti, ma è una necessità posta dalla storia. Noi non ci dobbiamo avventurare nell’inventare nuovi modelli magari recuperando quello che del passato è possibile recuperare, perché i vecchi arnesi sono storicizzati, perciò arrugginiti e inutilizzabili. Se da un lato i liberisti non possono continuare a pensare di utilizzare nuovamente una razza per ri-sviluppare l’accumulazione capitalistica, come è successo nella fase precedente dell’accumulazione originaria, noi non possiamo più pensare di distribuire la terra ai contadini per bocche come seppero fare i bolscevichi o ipotizzare comunità agricole come le obscine, il comunismo di guerra, la nep, le comunità delle comuni città-campagna come si illudeva il maoismo cinese. La storia non si riproduce per determinismo meccanicistico, mai. Anzi il determinismo nega il meccanicismo e pone l’uomo continuamente di fronte a sfide diverse, e solo gli ingenui o gli opportunisti possono pensare di ripescare dalla ferraglia arrugginita della storia vecchi strumenti per nuove avventure. Lo dico in modo particolare a quei signorotti che dietro motivazioni cosiddette ideologiche reggono i fili all’imperialismo occidentale che compatto difende le ragioni dell’Ucraina, un paese “aggredito” dall’”imperialismo” russo. Personaggi cattedratici che anziché studiare la storia si dedicano a inventare fantomatiche tendenze internazionaliste, finendo poi come utili idioti fra le file del democraticismo occidentalista.

Tra il 1861, l’anno della Riforma agraria che aboliva la servitù della gleba in Russia, e il 1989, l’anno dell’implosione dell’Urss, corrono ben 128 anni, due rivoluzioni, 1905 e 1917, e due guerre mondiali, 1914-1918 e 1939-1943, che non possono essere trattati con la superficialità e la saccenteria di chi riguardo a tutto quel periodo si è formato sulle ultime pagine de i Dieci giorni che fecero tremare il mondo di Reed o del romanzo di Trotsky Storia della Rivoluzione russa, scrivendo vere e proprie fanfaronate ideologiche. La storia è una cosa troppo seria per essere trattata con supponenza da chi non è in grado, tra l’altro, di distinguere tra la rendita da materie prime, l’accumulazione attraverso la produzione di plusvalore, e il ruolo del capitale finanziario. Ogni tentativo ideale prodotto tanto in Russia quanto in Cina o nei paesi dell’America latina è stato assorbito dal turbine del modo di produzione capitalistico con epicentro l’Occidente.

Oggi siamo a un punto di svolta in cui la crisi generale del modo di produzione capitalistico pone in essere una vera e propria guerra teorica, politica e pratica nei confronti del liberismo, una guerra temporale, cioè di chi prende atto della fine di un’epoca storica e cerca di organizzarsi sulla base delle sue macerie, che non può fondarsi sulle libertà individuali e il cosiddetto libero arbitrio generatore dello spirito di concorrenza, e lo scambio come logica conseguenza. Nel contempo è necessario sapere che nessuna centralizzazione e programmazione dell’economia basata sullo scambio potrebbe rappresentare un nuovo modo di produrre e distribuire.

È la volta buona per smettere di pensare sempre di anteporre il carro dinanzi ai buoi, ovvero di ipotizzare il cosa fare dopo l’ipotetica rivoluzione con formulette magiche senza che imploda il modo di produzione capitalistico.

Ne prendano nota i compagni del Collettivo Chuang e con loro quanti a sinistra lealmente si vogliono interrogare sulla fase che stiamo vivendo e a cosa si va incontro.

Comments

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Nicolai
Thursday, 29 December 2022 12:20
Grazie. Ne ho preso nota.
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