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“Della realtà. Fini della filosofia”: un addio alla realtà?

di Luca Greco

“Della realtà. Fini della filosofia” è un saggio che delinea il percorso di conoscenza del filosofo torinese Gianni Vattimo. Attraverso la riflessione sul pensiero di Heidegger vengono documentate le trasformazioni della società contemporanea. È una critica al “nuovo realismo”

Questo libro (edito da Garzanti), come scrive Vattimo sin dalle prime pagine introduttive, rappresenta il luogo di una riflessione cominciata all’inizio degli anni Ottanta con le prime enunciazioni del “pensiero debole”. Si tratta di un lavoro di riflessione intorno al tema della dissoluzione dell’oggettività o della realtà stessa tutt’altro che sistematico: i risultati raggiunti sono “solo delle tappe e non delle vere summae”.

Il significato di questo “itinerario a tappe”, che ha come nuclei fondamentali le lezioni di Loviano (1998) e quelle di Glasgow (2010), si può esprimere in un peculiare paradosso, “dalla “realtà” alla realtà”. Il percorso a cui Vattimo allude è quello tracciato dall’idea stessa di postmodernità.

Si procede da una presa di congedo dalla realtà “data” (problematizzando il “come” del suo darsi) in direzione di una sorta di impoverimento dell’oggettività in quanto effetto del dominio. Si approda, dunque, ad una seconda forma di “realismo”, che riconosce le difficoltà di una tale presa di congedo. La realtà viene così a configurarsi come un’imposizione di dominio storico-culturale.

I paradigmi e le precomprensioni entro le quali ci muoviamo vengono sempre a coincidere con ciò che chiamiamo “realtà”. Ma perché porre il problema della realtà?

Scrive Vattimo: “la questione della validità del paradigma non sorge sul problema della pioggia. Non nasce sulle verità di fatto […]. Le questioni che ci pongono in rotta con il paradigma sono quelle “noumeniche”: valori, etica, modo di organizzare la vita collettiva, senso generale della vita. E la rottura nasce proprio quando qualcuno ci risponde che il modo ragionevole di trattare tali questioni è quello di ridurle al piano delle verità di fatto” (“Della realtà. Fini della filosofia”, p. 108).

 

“Effetto Nietzsche” ed “Effetto Heidegger”

Lo sfondo dell’intera trattazione vattimiana del concetto di realtà è quello della “storia degli effetti” di Gadamer (Wirkungsgeschichte) e ciò è deducibile già dai titoli dei primi capitoli delle lezioni di Loviano: “Effetto Nietzsche” ed “Effetto Heidegger”. Questi due titoli collocano il problema della realtà in un orizzonte che va tenuto presente durante tutta la trattazione del libro: si parla di effetti. In un certo senso è proprio questo il concetto di realtà per l’ermeneutica. Questa è una distinzione di fondamentale importanza perché viene spesso trascurata nei dibattiti contemporanei sulla realtà. Comunemente si parla di realismo inteso come esistenza delle cose, qualcosa di identificabile e presente in quanto tale, ma va precisato che accanto ad un realismo fatto di cose, esiste un realismo determinato da effetti.

L’effetto Nietzsche si riassume nella celebre frase “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Anche questa è un’interpretazione”. Questo, secondo Vattimo, è l’assunto fondamentale dell’ “ermeneutica debole” che lui difende. La spiegazione di questa enigmatica frase la troviamo nel secondo capitolo, “Effetto Heidegger”. Qui viene precisato il carattere progettuale dell’esistenza, ossia il fatto che l’esistenza non sia qualcosa di fisso, un’essenza, una sostanza. L’esistenza è progettualità: il fatto, in Heidegger, diventa un progetto. Se ci sono dei fatti, questi non sono mai qualcosa di ultimamente determinati, ma sono o il risultato o il punto di partenza di un progetto. Per Heidegger, il fatto e la progettualità coincidono nell’esistenza. La celebre frase di Nietzsche non indica tanto un fatto, ma un dover essere, ossia delinea il compito della filosofia. L’ontologia nichilistica che si annuncia in Nietzsche non dà luogo, tranne che in Heidegger, agli sviluppi che meriterebbe:

“rimane poco più che un richiamo implicito dando luogo ad atteggiamenti relativistici e irrazionalistici che per reazione stimolano un ricorso al realismo” (“Della realtà. Fini della filosofia”, p. 30).

 

La “realtà”, un problema anche politico

Quello della “realtà” è un problema sia filosofico che politico: chiunque viva in società si “scontra” con la realtà data,

“le virgolette sono più resistenti di quanto si potrebbe aspettare. Ma lo scopo, il fine a cui mirare è ancora sempre quello di liquidare la realtà con le virgolette, la pretesa di definitività di ciò che è, del “dato”, cominciando a scoprire chi è che dà” (“Della realtà. Fini della filosofia”, p. 14) .

Per Heidegger chi dà nel darsi della realtà è l’Essere. L’Essere è un evento, è ciò che “si dà”. Noi siamo sempre coinvolti entro questo “darsi” che contribuiamo a determinare attraverso l’interpretazione. Scrive Vattimo: “l’esperienza della verità è affare di interpretazione”. Ma la radicalizzazione del coinvolgimento dell’interprete stesso nel processo può essere interpretata in chiave nichilistica come una progressiva dissoluzione dell’oggettività.

L’Essere è un progetto entro il quale ci troviamo gettati e noi siamo chiamati ad interpretarlo. “In quanto esistenti, dunque noi siamo sempre bestimmt, intonati, orientati secondo preferenze e repulsioni, mai semplicemente-presenti (vorhanden) in mezzo agli altri oggetti […]. Questa è l’idea di esistenza come “progetto”” (“Della realtà. Fini della filosofia”, p. 46).

Quando nasciamo, siamo già dentro una dimensione, o meglio in una “realtà” in un certo senso pre-determinata da un linguaggio, da una cultura e dai pre-giudizi che inevitabilmente ereditiamo. L’Essere come evento, come progetto è un “dono”: non possiamo “storicamente” sottrarci ad accoglierlo e ad articolare il significato dei suoi effetti, quindi ad interpretarlo. All’interno di questa eredità culturale, linguistica e pre-giudiziale possiamo addirittura illuderci di essere realisti. Lo stesso “bisogno di realtà” è tutt’altro che un fatto di “umiltà naturale”, è sempre qualcosa di “positivo” che viene posto, o meglio, imposto da una scelta culturale, da una abitudine storica.

Oggi, mentre il capitalismo attraversa una delle crisi più gravi della sua storia, il “richiamo alla realtà” diventa l’urlo di battaglia, il nuovo strumento per imporre il conformismo e l’accettazione dell’ordine vigente, ossia l’idea che l’attuale crisi finanziaria si possa vincere solo con un “nuovo realismo”: pagare i debiti, lavorare di più e con i salari più bassi. Contro questa ideologia autoritaria, l’ermeneutica – ossia la costante interpretazione e la consapevolezza dell’impossibilità di immaginare un qualche ordine storico dopo la dissoluzione della metafisica della presenza – diventa un singolare mezzo conoscitivo (di consapevolezza), proprio perché ci consente di superare la dittatura del presente. La realtà del presente che ci è “data”, la cultura dominante della nostra società, non è qualcosa di intangibile, ma è ciò che diviene storicamente.

L’effetto rivoluzionario dell’ermeneutica fa appello al fatto che una diversa comprensione sia possibile e ciò viene espresso da Gadamer attraverso l’idea di “differenza ontologica”. È possibile una diversa verità, una verità che non sia conferma, ma falsificazione. Ciò che viene mostrato durante la comprensione di una tale idea falsificazionista e anti-conformista della verità è la modificabilità del reale, l’idea che – come scrive Vattimo – “un altro mondo è possibile” (“Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani” p.163). La verità è la prassi, è ciò che fai. In tal senso l’ermeneutica può diventare un progetto di cambiamento che ha delle immediate ripercussioni storico-politiche.

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