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Il Forum di Davos prova a esorcizzare la fine della mondializzazione capitalista

di Sergio Cararo

Il World Economic Forum cominciato ieri a Davos, punta la sua attenzione alla “collaborazione in un mondo frammentato” e si svolge “nel contesto geopolitico ed economico più complesso degli ultimi decenni”, secondo quanto affermato in apertura da Borge Brende, presidente del Wef. In pratica darà voce e ribalta alle serissime preoccupazioni della borghesia mondiale sulla regressione in corso delle magnifiche e progressive sorti dell’Occidente capitalista.

L’agenda di Davos in questi ultimi decenni è stata l’agenda della globalizzazione capitalista del mondo ma, secondo Il Sole 24, proprio i problemi globali “spingono però Stati e opinioni pubbliche a complicate risposte nazionali, mentre i forum internazionali fanno sempre più fatica a trovare soluzioni condivise per problemi planetari”.

Il Wef è il punto di incontro della élite planetaria, il posto ideale per misurare lo stato di salute di una mondializzazione a trazione Usa ormai assediata su tutti i fronti e per molti versi costretta alla ritirata. “Viviamo in un’era di shock multipli, potremmo essere a un punto di svolta per l’economia globale”, commenta l’economista Kenneth Rogoff, professore dell’Università di Harvard e frequentatore abituale del Wef.

Il mondo disegnato e imposto dalla borghesia mondiale a Davos, quello della libera circolazione delle merci e dei capitali e quello dello sviluppo tecnologico funzionale ad essi, si è scontrato con una nuova realtà. Qualcuno si ricorda ancora dell’esistenza e della vigenza del WTO?

Il mondo e l’economia mondiale oggi si sono divisi tra un blocco euroatlantico (con i suoi presidi locali in Giappone, Corea del Sud, Australia) e l’eterogeneo blocco dei paesi emergenti in Asia, Medio Oriente, America Latina, Africa. Una sintesi un po’ schematica ma potabile definisce tutto questo come mondo multipolare.

Ma l’economia mondiale fondata sul Modo di Produzione Capitalista – comune ad entrambi i blocchi – oggi annaspa dentro le contraddizioni da esso stesso create (dalla ripresa dell’inflazione all’emergenza climatica) e produce fratture. La prima fra tutte è la tendenza di gran parte dei paesi emergenti a “sganciarsi” dal dollaro come unica moneta per gli scambi internazionali. Una frattura incentivata dal ripetuto e ossessivo ricorso alle sanzioni da parte di USA ed Unione Europea contro i paesi emergenti e quelli considerati rivali.

Nel resto del mondo “esterno” all’Occidente e al blocco euroatlantico cresce la tendenza a sganciarsi dalla loro egemonia, avviando una tendenza che alcuni osservatori definiscono come de-occidentalizzazione.

E di fronte alla fine della mondializzazione capitalista così come l’abbiamo conosciuta – e subìta – nei decenni scorsi, arrivano anche i rimpianti rancorosi dei corifei della borghesia mondiale. E’ il caso di Pierre Haski su Internazionale, secondo cui: “L’ultima iniziativa rilevante di Davos passerà alla storia come un errore. Parlo del tappeto rosso steso davanti al numero uno cinese Xi Jinping nel 2017, presentato come salvatore del libero scambio”.

Per Haski il covid e le rivalità geopolitiche hanno avuto la meglio su un certo modello della globalizzazione. “Davos ha accompagnato l’espansione della Cina “fabbrica del mondo” ma non ha compreso l’esigenza crescente di una regionalizzazione della produzione e di una separazione dalla Cina nel campo delle tecnologie”.

Sullo sfondo è ben visibile l’incapacità dei paesi a capitalismo avanzato di superare le conseguenze dell’ultima crisi: quella del 2007/2008 e della pandemia di Covid. Consultati dal Chief Economists Outlook i due terzi degli economisti, raddoppiati rispetto allo scorso settembre, considerano una recessione globale “estremamente probabile”. Tutti gli economisti intervistati si aspettano una crescita debole o molto debole, in Europa, ma il 91% avanza la stessa valutazione anche per gli Usa.

Ma anche i Ceo (amministratori delegati) vedono nero. Tre su quattro sono convinti che l’economia globale andrà in negativo nei prossimi 12 mesi, mentre il 40% teme per l’impatto delle sfide del prossimo decennio. A suonare l’allarme è la 26esima Annual Global Ceo Survey curata dalla PricewaterhouseCoopers. Si tratta di un’indagine condotta fra 4.410 Ceo in 105 Paesi e resa pubblica in apertura del Forum di Davos. “Un’economia volatile, inflazione ai massimi di decenni, la conflittualità geopolitica hanno contribuito a portare a un livello di pessimismo fra i Ceo che non si vedeva da un decennio”, commenta Bob Moritz, global chairman di PwC.

In un contesto come quello descritto da tante e tali fonti, l’aver provocato e alimentato una guerra in Europa contro la Russia, dimostra non solo l’avventurismo ma anche i rischi nel continuare ad affidare le sorti dell’umanità a quelli che si riuniscono annualmente sulle montagne svizzere per cercare di mantenere a tutti i costi la loro visione e la loro “presa” su un mondo assai più grande e articolato di quanto sia il blocco euroatlantico.

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