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La molteplicità delle guerre

di Maurizio Lazzarato

Le guerre che caratterizzano questa fase del capitalismo, così come è avvenuto nel Novecento, non sono tutte uguali, scrive Maurizio Lazzarato in risposta all’articolo di Raúl Zibechi su Comune, che aveva polemizzato con un punto di vista – ritenuto eurocentrico e troppo ancorato a una visione novecentesca – che Lazzarato ha espresso e ben argomentato nel suo ultimo libro, “Guerra o rivoluzione. Perché la pace non è un’alternativa”, e poi nei dibattiti che lo hanno seguito, in particolare nelle presentazioni tenute in Sudamerica. Maurizio ricorda che nella tradizione del movimento rivoluzionario si aveva almeno l’accortezza di distinguere tra diversi tipi di guerra: quelle tra imperialismi, quelle civili, quelle di liberazione nazionale, quelle di aggressione e quelle difensive, la guerra di classe, ecc. Quelle guerre non avevano le stesse cause, non implicavano le stesse forze politiche, non richiedevano lo stesso tipo di azione politica e non avevano gli stessi effetti, precisa, per poi metterci in guardia contro l’idealizzazione e la riduzione della complessità sulla base di un’idea problematica di autonomia – il principale limite del testo di Zibechi, a suo avviso.

Confondere una sfavorevole correlazione di forze con una “scelta” sarebbe un’ingenuità che certo non possiamo permetterci. Sulle pagine di Comune, ben prima dell’invasione russa del febbraio scorso, sulla guerra e sulle guerre che devastano il pianeta, sono comparsi centinaia di articoli (e come poteva essere altrimenti?) con molti e diversi punti di vista, la discussione aperta tra Zibechi e Lazzarato – che investe grandi temi come le relazioni delle ribellioni con la violenza, lo Stato, le riconfigurazioni del dominio capitalista, la cultura patriarcale e un lungo eccetera – apre il cammino a nuovi approfondimenti di grande spessore, urgenza e interesse. Gliene siamo davvero molto grati.

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Raúl Zibechi ha aperto un dibattito partendo dal mio ultimo libro, «Guerra o rivoluzione» (Derive Approdi) che vorrei continuare. Non penso di aver «recuperato» la guerra, perché è la guerra che ci ha «recuperato», che è venuta a cercarci. Che il concetto di guerra, da sempre, con quello di rivoluzione, al centro del dibattito del movimento operaio, sia stato rimosso è dimostrato proprio dall’intervento di Zibechi. In America del Sud è in corso uno scontro dovuto all’estrattivismo che RZ definisce guerra. Non lo metto assolutamente in dubbio, mi limito a domandare, di che guerra si tratta? La stessa che si sta svolgendo in Ucraina? Se si risponde affermativamente, se si equiparano le due guerre si introducono delle grandi confusioni che non sono di nessuna utilità per l’azione politica.

Nella tradizione del movimento rivoluzionario si aveva l’accortezza di distinguere tra diversi tipi di guerra: guerra tra imperialismi, guerre civili, guerra di liberazione nazionale, guerra di aggressione, difensiva, guerra di classe, sfruttamento, dominio, ecc. che non avevano le stesse cause, non implicavano le stesse forze politiche, non richiedevano lo stesso tipo di azione politica, non avevano gli stessi effetti.

Le guerre civili scatenate dall’imperialismo americano in tutta l’America Latina negli anni 70 sono la stessa cosa della guerra di cui parla Zibechi? Spero che si risponda negativamente, a meno di non voler affermare che «nella notte nera tutte le vacche sono nere», cioè tutto è indistinto.

Con Eric Alliez abbiamo scritto nel 2016 un libro «Wars and Capital» dove già nel titolo, scrivendo guerre al plurale, si afferma che ci sono una molteplicità di guerre che caratterizzano il capitalismo. Ci siamo concentrati sulle guerre di classe, di sesso e di razza, perché le ultime due non erano state prese in considerazione dal movimento operaio, proprio per cercare di articolare il concetto di guerra e la sua continuazione con altri mezzi in tempo di «pace».

Il capitalismo si è strutturato a partire dalla conquista delle Americhe in una divisione nord/sud. In Europa la guerra era regolata dal «diritto internazionale», condotta da eserciti regolari e non implicava, all’inizio, le popolazioni, mentre nel grande sud non è mai stata inquadrata dal diritto internazionale e diretta contro le popolazioni indigene. Quindi, lungi da me, disconoscere l’azione differenziante dell’imperialismo al nord e al sud! Anzi è uno dei problemi maggiori per una rivoluzione che non può che essere « mondiale».

Io non conosco bene la situazione politica dell’America Latina, né tanto meno il dibattito politico tra gli indigeni. Nel mio ultimo viaggio in Argentina, Cile, Uruguay ho avuto modo di discutere con compagni locali. Il quadro che ne è emerso è un po’ diverso, non dico più vero, ma diverso da quello proposto da RZ. Le sue affermazioni sembrano una generalizzazione riduttiva, come se tutte le lotte contadine e indigene del continente potessero essere contenute nella formula “resistenza civile pacifica” e potessero essere tutte pensate negli stessi termini (quando lo schema predominante, mi dicono, tra organizzazioni di questo tipo sembrano essere l’ambiguo, il miscuglio, il meticcio e non solo identità pure e chiuse). Ad esempio, è noto che i popoli Mapuche hanno molte tensioni interne in relazione al tema della violenza (queste tensioni esprimono anche differenze in relazione all’identità ― appunto, ci sono posizioni più chiuse ed essenzialiste e altre più porose e inclini all’ibridazione, alla mescolanza). Lo stesso in Colombia ed Ecuador. Ci sono stati scontri tremendi in questi anni, con molti omicidi di leader indigeni. Ma, soprattutto, la decisione della resistenza civile pacifica, su cui medita Zibechi, non basta per capire cosa stia succedendo in America Latina. L’idealizzazione e la riduzione della complessità sulla base di un’idea problematica di autonomia sembra il principale limite del testo. E non è senza una certa ingenuità confondere una sfavorevole correlazione di forze con una “scelta”.

Anche per quanto l’esperienza zapatista, in Sud America i compagni con cui ho discusso la interpretano differentemente: l’ EZLN rifugge dall’idea che la vittoria militare gli darà la vittoria politica, ma non rifugge dal fatto di assumere che la guerra è necessaria – certo, alle sue condizioni, cioè dando il primato all’auto-difesa piuttosto che all’offensiva (punto di vista che Clausewitz condividerebbe). Ma ciò che è discutibile qui, non è tanto la strategia zapatista, quanto piuttosto l’operazione di contestare altre possibili strategie ― anche quelle che non hanno necessariamente a che fare con la guerra armata contro lo Stato.

Tutte queste esperienze possono portare dei contributi fondamentali per l’elaborazione di una nuova strategia, per l’articolazione di nuove forme di lotta, ma allo stesso titolo dell’esperienza Kurda. Per i Kurdi non ha nessun senso discutere in astratto di «pacifismo sì, pacifismo no»!

Io sono convinto che una delle cause maggiori della guerra in corso (in Ucraina intendo), sia il potere che il grande Sud (Cina, India, Vietnam, Sud America, ecc) ha acquisito grazie alle rivoluzioni anti-coloniali del XX secolo. Certo, le rivoluzioni si sono concluse, gli Stati del «sud globale» hanno abbandonato il socialismo, ma le rivoluzioni hanno comunque sedimentato un cambiamento nei rapporti di forza con il Nord (l’occidente).

Senza togliere nulla alla rivoluzione messicana, mi sembra molto strano non riconoscere il ruolo della rivoluzione sovietica nell’apertura delle guerre contro il colonialismo che hanno portato a questo cambiamento dei rapporti nord-sud, perché sono stati i protagonisti della più grande guerra anti-coloniale e della più lunga guerra contro l’imperialismo e sono Mao e Ho Chi Min che lo dicono. Quest’ultimo leggendo le « Tesi sulle questioni nazionali e coloniali » del 2° congresso dell’internazionale comunista del 1920, esclama: «Che emozione, entusiasmo, lucidità e fiducia questa lettura mi ha inculcato! Ero emozionato alle lacrime (…) Cari compatrioti martiri! è quello di cui abbiamo bisogno, è la strada della nostra liberazione».

Fanon, guardando la rivoluzione dal punto di vista dei colonizzati e dei « neri», dirà comunque «Bisogna fare come Dien Bien Phu», cioè come una delle versioni del metodo bolscevico. Mao dirà che sono stati i concetti arrivati con la rivoluzione bolscevica che hanno permesso alla rivoluzione cinese di uscire dalle ambiguità del punto di vista democratico in cui era impantanata fino agli anni 20.

Con tutto il rispetto per la rivoluzione messicana, mi sembra che quella sovietica abbia giocato un ruolo diverso per la sua enorme capacità di riproduzione e di adattamento a situazione molto diverse (Cina, Vietnam, ecc.)

In ogni modo questa storia è finita. Quel tipo di rivoluzione si è esaurita.

Non mi sono mai sognato di rivendicare per la nostra attualità la parola d’ordine leninista vale a dire trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Né di incitare ad una guerra «simmetrica» non ben definita o che scimmiotti le guerre civili del XX secolo. Il riferimento a Lenin e ai rivoluzionari della prima parte del XX secolo è dovuto a un fatto molto semplice: non posso farci niente, se l’ultimo dibattito serio, approfondito culturalmente e politicamente solido, sulla guerra e il suo rapporto con il capitalismo e di quest’ultimo con lo Stato, è stato condotto nella prima metà del XX secolo. È questo dibattito, interrotto da una sconfitta storica, subita negli anni 70 che cerco di rilanciare. Niente di guerrafondaio!

In America del Sud, per limitarsi a questa parte del mondo, il problema delle forme di lotta, delle forme di organizzazione non può limitarsi all’opposizione al pur importante problema dell’estrattivismo. Le polarizzazioni determinate dall’imperialismo del dollaro stanno spaccando le società. Il conflitto che il neoliberalismo doveva scongiurare o nascondere, emerge con ancora più violenza: le nuove forme di fascismo, il populismo reazionario stanno sostituendo la governance neoliberale. La guerra civile più o meno sommersa che traversa il Brasile, ma anche il Perù pone dei nuovi problemi. L’insurrezione cilena, il processo costituente che si era aperto si è concluso con una amara sconfitta, anche qui con una divisione radicale della società. Le migliaia di collettivi, forze, movimenti implicati nella scrittura della Costituzione che cancellasse quella di Pinochet, sono stati sostituti da una manciata di esperti.

Invece di opporre una facile e discutibile polemica (eurocentrismo) si tratta di continuare a pensare la differenza di situazioni e di soggettività politiche tra il Nord e il Sud che, manifestatesi durante le rivoluzioni del XX secolo, continuano a riprodursi nelle nuove condizioni del capitalismo.

E’ rispetto a queste drammatiche situazioni che si tratta di elaborare un concetto di guerra, sapendo però, che la guerra prima di essere uno scontro armato è una strategia politica che può diventare confronto violento tra forze, ma non necessariamente.

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