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Colloqui tra Russi e Sauditi. Teheran e Mosca bypassano le sanzioni. Il Medio Oriente scalpita

di S. C.

A sottolineare come in Medio Oriente tutto sia in movimento – e pertanto le tensioni stiano schizzando verso l’alto – il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman ha avuto ieri un colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin.

Il tema del colloquio era la cooperazione all’interno dei paesi del gruppo OPEC+ per mantenere la stabilità del mercato petrolifero. Il Cremlino ha aggiunto però che Bin Salman e Putin hanno anche discusso dell’ulteriore sviluppo della cooperazione bilaterale nei settori politico, commerciale, economico ed energetico.

I ministri dell’OPEC+ (l’Organizzazione dei paesi storici esportatori di petrolio, più la Russia) avranno un incontro online il prossimo 1° febbraio ed è probabile che verrà deciso di mantenere l’attuale politica sulla produzione di petrolio, una scelta che però sta dando “seri dispiaceri” a Washington.

Le divergenze sugli obiettivi di produzione di petrolio dell’OPEC+, lo scorso anno hanno infatti portato a un disaccordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita. Ma il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, all’inizio di gennaio ha tenuto a sottolineare che l’attuale stabilità del prezzo del petrolio nel mercato “dimostra che l’Arabia Saudita ha preso la decisione giusta”.

Sulle quote, la produzione e il prezzo del petrolio, permangono però fattori di incertezza, in quanto l’offerta sarà influenzata dalle recenti sanzioni occidentali sull’industria petrolifera russa, imposte in seguito alla guerra in Ucraina, nonché dai limiti di prezzo introdotti sui prodotti russi a dicembre.

Ma la situazione in Medio Oriente appare in movimento anche più a est e riguarda quello che fino a ieri era la potenza rivale dell’Arabia Saudita.

L’agenzia Reuters rivela che Iran e Russia hanno collegato i loro sistemi di comunicazione e trasferimento interbancario per contribuire a incrementare le transazioni commerciali e finanziarie, e bypassare quindi il sistema SWIFT – sotto il pieno controllo Usa – attraverso cui agiscono le sanzioni occidentali.

Dalla reintroduzione nel 2018 delle sanzioni statunitensi contro l’Iran, dopo che Washington ha abbandonato l’Accordo sul nucleare iraniano nel 2015, la Repubblica islamica è stata disconnessa dal servizio finanziario SWIFT con sede in Belgio, che è un punto di accesso bancario internazionale chiave.

Simili limitazioni sono state imposte lo scorso anno anche ad alcune banche russe a seguito dell’attacco all’Ucraina da parte di Mosca.

Le banche iraniane non hanno più bisogno di usare SWIFT con le banche russe, che possono essere per l’apertura di lettere di credito e trasferimenti o garanzie“, ha detto il vice governatore della banca centrale iraniana, Mohsen Karimi, all’agenzia Fars News.

Mentre la Banca centrale russa ha rifiutato di commentare l’accordo firmato domenica, Karimi ha affermato che “circa 700 banche russe e 106 banche non russe di 13 paesi diversi saranno collegate a questo sistema“, senza approfondire i nomi delle banche straniere.

La Repubblica Islamica Iraniana sta affrontando la sua peggiore crisi di legittimità dopo mesi di proteste antigovernative, scatenate dalla morte di una giovane donna fermata da parte della cosiddetta “polizia morale”. Le autorità iraniane temono che l’isolamento economico e la mancanza di miglioramenti economici possano portare a ulteriori disordini.

Il leader iraniano Ali Khamenei ha affermato lunedì che l’establishment ha dovuto affrontare “un problema tangibile di benessere e mezzi di sussistenza“, che non potrebbe essere risolto senza la crescita economica.

Sabato l’Iran è stato anche oggetto di attacchi aerei con droni, da parte di Israele e Stati Uniti, contro gli impianti militari e industriali in alcune città del paese. Curiosamente, mentre i giornali statunitensi ne addebitavano la responsabilità a Israele, la televisione saudita Al Arabya ha accusato soprattutto gli Stati Uniti.

In Palestina tutte le organizzazioni della resistenza palestinese hanno deciso di rispondere colpo su colpo ai raid e alle vessazioni dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme, ma anche nei territori del ’48, in pratica in tutti i territori palestinesi riconosciuti dall’Onu nel 1947.

L’affermazione della ultra-destra sionista, ora al governo di Israele con Netanyahu, è stata inevitabilmente valutata come una dichiarazione di scontro frontale con la pluridecennale aspirazione dei palestinesi alla propria autodeterminazione.

Sono i segnali di una escalation che ormai incombe su tutto il Medio Oriente, dove l’asse Usa-Israele sta incassando brutte sorprese ma appare comunque disposto a tutto pur di mantenere uno statu quo economico, strategico e diplomatico ritenuto però non più sostenibile dalla maggioranza dei paesi mediorientali.

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