Nelle tempeste del mercato mondiale
di Giorgio Cesarale
Il tentativo di scaricare sul salario globale di classe gli effetti di una crescita economica insufficiente – propria di un capitalismo zombificato – è sempre più difficile, non da ultimo perché la classe lavoratrice si sta ribellando
Sul “Manifesto” dell’altro ieri, Fabrizio Tonello si è quasi messo nelle vesti dei protagonisti delle Lettere persiane di Montesquieu, raccontando che cosa può accadere oggi a un viaggiatore immaginario che da Parigi, dove le strade sono affollate da una moltitudine di scioperanti, si sposti prima a New York City, dove si rischia “di non poter bere il caffè da Starbucks”, e poi a Londra, in cui “bisognerà attendere pazientemente che sfili un corteo di infermiere inferocite per i tagli al servizio sanitario inglese”, e a Tel Aviv, in cui la polizia ha dovuto sgombrare i manifestanti per consentire la partenza di Netanyahu per l’Italia. Non è il medesimo spettro che si aggira per l’Europa e il mondo, ma certamente alla pluralità dei tempi e degli spazi, al “non contemporaneo”, nel senso di Ernst Bloch, si sovrappone una trama di motivi comuni, uno strato di esperienze globali di deprivazione economica e politica, che può disegnare, sotto certe e determinate condizioni, una prospettiva nuova.
Anzitutto, coloro i quali, come si dice negli Stati Uniti, sono “just two and a half pay cheques away from homelessness”, i lavoratori e le lavoratrici salariate, collocati al cuore del processo sia di produzione sia di riproduzione, stanno alimentando in alcuni loro comparti una serie di lotte che, sebbene a carattere difensivo – perché volte a proteggere il salario globale di classe (cioè diretto, indiretto, differito) da un’ulteriore degradazione –, colpiscono per la loro intensità e la loro determinazione. Il processo non è sorto ora, essendosi alcuni suoi prodromi già delineati nel decennio successivo al grande crack del 2007-2008, ma l’accelerazione è evidente: il tentativo di scaricare sui livelli del salario globale di classe gli effetti di una crescita economica insufficiente – propria di un capitalismo zombificato, che non è mai riuscito davvero a riscuotersi dalla grande crisi di profittabilità esplosa nel 1968-1973 –, ha avuto un certo successo negli anni ’80 e ’90, ma ora è sempre più difficile, non da ultimo perché la classe lavoratrice sta smettendo di avere la memoria delle sue rovinose sconfitte, della stessa catastrofe del 1989. Il meccanismo della crisi generale e mondiale di capitale, poi, procede: qualche giorno fa Silicon Valley Bank, la sedicesima banca statunitense per capitalizzazione, è fallita a causa dell’aumento, seguito a quello dei tassi di interesse fissati dalla Federal Reserve, del costo di finanziamento delle attività di quelle start-up tecnologiche che erano fra i suoi principali clienti. Dovendo affrontare una “crisi di liquidità”, quest’ultimi si sono trovati costretti a ritirare il capitale che vi avevano depositato. L’homunculus keynesiano che si agita nella testa di ogni membro dell’establishment di sinistra potrà così esclamare: ecco cosa succede quando non vi è l’“eutanasia del rentier”, quando cioè l’efficienza marginale del capitale è troppo alta per via di una politica monetaria restrittiva! Ma il problema non è tanto il livello dei tassi di interesse, quanto la scarsa remuneratività degli investimenti effettuati nei settori ad alta composizione tecnica, in cui a una forte abbondanza di capitali in essi operanti corrispondono tassi di profitto troppo bassi, anche in virtù del pesante dimagrimento della loro forza-lavoro.
A ciò bisogna aggiungere che il keynesismo, come l’ente in quanto ente di Aristotele, si dice in molti modi, non necessariamente progressisti: la politica monetaria di Fed e Bce non è più accomodante, ma in compenso gli investimenti pubblici nel complesso militare-industriale stanno aumentando vertiginosamente in tutto il mondo, anche se forse non a un tasso tale da “stimolare” la crescita economica[1]. Sarebbe paradossale però se, per ottenere il celeberrimo “moltiplicatore” del keynesismo, passassimo da una politica monetaria non convenzionale e dall’alluvione di liquidità a costi zero al militarismo bellicista. Eppure è proprio quel che si pensa in alcuni settori delle classi dirigenti occidentali, ormai sciaguratamente reclinati sull’idea della desiderabilità di un’economia di guerra che, pur rompendo definitivamente l’unità del mercato mondiale – unica garanzia di un certo benessere per le masse popolari – promuoverebbe i profitti dei grandi monopoli. Anzi, di alcuni grandi monopoli: in una Unione Europea incalzata dalle politiche protezionistiche del governo statunitense e anchilosata dalla sua naturale e storica proiezione tanto verso l’Asia, per non aver saputo fermare la guerra in Ucraina, quanto verso l’Africa, per il blocco dei “flussi migratori”, le conseguenze di questa scelta a favore dell’economia di guerra sarebbero ancora più micidiali: l’esempio della Volkswagen, che avrebbe per il momento deciso di sospendere la costruzione di una gigafactory per la produzione di batterie in Europa, facendolo negli Usa, dove otterrebbe i sussidi previsti dall’Inflation Reduction Act varato nell’agosto scorso, lo dimostra ad abundantiam.
Salari, inflazione, guerra: tutto si tiene nelle tempeste del mercato mondiale.
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