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Crisi bancaria. Più “ci lavorano”, più si aggrava…

di Claudio Conti

Sono poche le certezze per chi ancora ha fede nelle chiacchiere liberiste. Tanto che i più ironici ormai pubblicano meme del tipo “faremo fallire la Russia facendola entrare nel nostro sistema bancario”.

Divertente di sicuro, ma anche piuttosto acuta, come osservazione. Perché contiene parecchi degli elementi determinanti dell’attuale crisi nervosa che percorre “i mercati finanziari” euro-atlantici.

C’entrano infatti la guerra in Ucraina, le sanzioni suicide, l’esplosione dei prezzi dell’energia (ridimensionati, ma con strascichi di lungo periodo), la conseguente inflazione (preparata da un decennio di quantitative easing da parte delle banche centrali), le abitudini delle banche e l’improvvida abolizione della distinzione tra “banche di investimento” e “banche commerciali” (dal 1999, quando Clinton abolì il Glass-Steagal Act risalente non a caso al 1933). Ed anche qualche altro squilibrio sistemico per ora non centrale…

Ieri la Federal Reserve ha alzato ancora i tassi di interesse base. Ma stavolta soltanto dello 0,25%. Una misura “dimezzata” rispetto alle attese di qualche settimana fa, e che viene fuori dalle due preoccupazioni principali che torturano le meditazioni dei banchieri centrali (in questo caso Jerome Powell).

Da un lato devono cercare di riportare l’inflazione vicina al 2%, e quindi rendere più costoso il denaro, “raffreddando” l’economia. Dall’altro devono tener conto del fatto che proprio I rapidi rialzi dei tassi sono all’origine dello sconquasso nei bilanci di parecchie banche.

Contrariamente alle attese della “teoria neoliberista”, infatti, che assicurano sui maggiori profitti delle banche quando i tassi salgono, queste si sono ritrovate con portafogli pieni di titoli di stato che si svalutavano velocemente in conseguenza di quell’aumento.

Una situazione, come abbiamo provato a dire qualche settimana fa, non problematica se quei titoli di stato vengono tenuti fino alla data di scadenza. Ma potenzialmente devastante se si è costretti a venderli – rimettendoci anche molto – per rimediare la liquidità necessaria a far fronte alle richieste dei clienti.

E’ quello che è accaduto nel caso della Silicon Valley Bank, fallita in un giorno nonostante l’agenzia di rating Moody’s le riconoscesse la “tripla A” fino al giorno prima (era accaduto lo stesso con Lehmann Brothers, ops!…). Poi con First National, in via di salvataggio, e altre banche Usa minori.

Si capisce, dunque, che la Fed abbia cercato di salvare capra e cavoli (il “rigore” contro l’inflazione e il timore di aggravare le crisi bancarie), lasciando capire di essere ormai molto vicina al punto in cui di aumenti dei tassi non si parlerà più.

Anche perché sarebbe poco credibile andare avanti da un lato alzando i tassi e dall’altra aprendo il portafogli per finanziare i salvataggi. Comprensibile alternare le due politiche nel tempo (“dai la cera, togli la cera”, come in Karate kid), ma non fare le due cose contemporaneamente.

Il “contagio” – che “non ci sarebbe stato”, assicuravano gli “esperti” – ha travolto in un giorno anche Credit Suisse, la seconda banca svizzera. E proprio le modalità di questo fallimento sono ora al centro delle preoccupazioni – tanto per cambiare – dei “mercati.

Passi la scelta di farla comprare a prezzi stracciati dalla storica concorrente Ubs (a 0,75 franchi per azioni, ma ne aveva offerti inizialmente solo 0,25). E passi anche la garanzia posta dalla banca centrale: 200 miliardi di franchi. Cifra rilevante in assoluto, ma devastante se paragonata alle dimensioni del Pil elvetico: il 25%.

Quello che inquieta è però altro. Per la prima volta, in un fallimento bancario, sono stati parzialmente salvati gli azionisti mentre sono stati completamente azzerate le obbligazioni At1. Il che è semplicemente il contrario di ogni principio capitalistico, perché per garantire qualcosa ai “proprietari” (gli azionisti) vengono fottuti i creditori (quelli che avevano comprato le obbligazioni emesse dalla banca, cioè che avevano prestato I propri soldi).

La cosa è così sconvolgente da far dire anche a vecchie volpi del mercato cose come «Se questa decisione viene confermata, come possiamo fidarci di qualsiasi titolo di debito emesso in Svizzera, o in Europa in linea generale, se i governi possono semplicemente cambiare le leggi dopo il fatto?».

E per essere più chiari, Mark Dowding, chief investment officer di RBC BlueBay, che deteneva obbligazioni AT1 di Credit Suisse, ha aggiunto che la Svizzera «assomiglia più a una repubblica delle banane».

La Svizzera, boys… Quella che da secoli vive di neutralità e sistema bancario, che ha retto imperturbabile due guerre mondiali facendo da deposito bancario per chiunque (nazisti e democratici, “ariani” ed ebrei, ecc.…).

La caduta di credibilità del sistema bancario svizzero è uno di quegli eventi che cambia la storia europea, anche se ancora se ben pochi ci hanno fatto caso.

Il problema più grosso per Berna, al momento, è infatti un altro. Il bilancio di Ubs, dopo l’acquisizione di Credit Suisse, è a questo punto il doppio del Pil svizzero. Una “concentrazione di rischio” difficile da gestire, se dovessero venir fuori altri problemi, e che renderebbe la “garanzia” della banca centrale poco più di un’aspirina per combattere il cancro.

E non sembra confortante l’equilibrio mentale della stessa banca centrale elvetica, che stamattina ha deciso un nuovo rialzo dei tassi di interesse – dello 0,50%, una misura “elevata” – nonostante stia gestendo in prima persona una crisi bancaria che rischia di privare il paese della sua principale attività economica (poi restano orologi di lusso e cioccolata, direbbe un critico…).

In pratica “togli la cera” con la mano destra mentre “metti la cera” con la sinistra… Difficile pensare che sia un comportamento razionale, di quelli che risolvono il problema. Viene il sospetto che non sappiano proprio più che fare…

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