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Chi ci salverà dall’Occidente?

Umberto De Giovannangeli intervista Mario Tronti

Mario Tronti descrive un'Europa assente, un asse occidentale sempre più spostato a est, una NATO protagonista nello scenario di una nuova guerra fredda, dove la politica, liquida e sperduta, deve ricostruire, soprattutto a sinistra, la sua identità

Professor Tronti, si continua a combattere in Ucraina, si continua a morire nel Mediterraneo. Un mondo in guerra – 47 quelle in corso – con milioni di disperati che dalle guerre fuggono e rischiano la vita. Eppure la politica in Italia sembra non accorgersene, se non in chiave di polemiche interne.

Una volta si chiamava “analisi della fase”. Oggi non c’è più questa saggia abitudine di pensiero politico. Cerchiamo minimamente di farla. L’ultima forma di globalizzazione capitalistica, economia a trazione finanziaria, si sta scontrando con un mondo politicamente in movimento. In movimento e in mutamento. La vecchia politica di potenza di paesi-nazione si muta in geopolitica, che vede protagonisti interessi di nazioni-continente.

L’asse del mondo si va lentamente spostando dall’Atlantico al Pacifico, sovrastando quella terra di mezzo che è l’Europa, con dentro l’Italia. E tra il nord e il sud del mondo il vento sta invertendo la direzione, con un secolo africano che comincia a premere dal Mediterraneo in su. È un terremoto ancora a bassa intensità, ma che fa prevedere scosse di ben maggiore magnitudo. La guerra in Ucraina è in fondo un sintomo del grande gioco già in atto. Non vedo diffusa la consapevolezza del problema. C’è uno scontro di civiltà, diverso da quello che aveva analizzato Huntington e un ordine mondiale in piena crisi come quello che va analizzando Kissinger. Per il resto i piccoli paesi-nazione al loro interno, come vediamo plasticamente qui da noi, sono troppo impegnati nelle loro liti di cortile per semplicemente accorgersi di quanto sta avvenendo.

 

Europa, la “Grande assente”. Esiste un europeismo di sinistra in grado di incidere sul futuro?

Nello scenario sopra indicato, attualmente l’Europa non esiste. E una delle cause di questa non esistenza è che non esiste una sinistra europea. Non è mai stato elaborato un europeismo di sinistra, e cioè la visione di un’Europa di popoli, oltre che di Stati, istituzionalmente federati, come potenza autonoma, con politica estera e di difesa comuni. L’Ue è nient’altro che il comitato d’affari degli interessi economici delle nazioni più grandi con annessi gli interessi di quelle più piccole. Gli Stati Uniti stanno guardando a paesi baltici e a democrature est europee, per non vedersi più davanti agli occhi l’asse franco-tedesco. Biden vola a Kiev, si ferma a Varsavia e sorvola Bruxelles. E questa guerra ci sta mostrando un animale impolitico di strane sembianze: un’Unione economica europea con l’elmetto della NATO. Più che una grande assenza quella dell’Europa ufficiale di oggi è una piccola minuscola presenza, senza voce, emarginata e subalterna.

 

Parlare a sinistra di neo imperialismo USA è una manifestazione di “nostalgismo”?

Imperialismo è termine molto datato, storicamente e teoricamente. Bisogna stare molto attenti, in una buona rivendicazione del passato, a non tornare su concetti dogmaticamente ripetitivi. C’è una pretesa di egemonia unipolare da parte degli Stati Uniti, comprensibile dopo la fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti. I neocons, di marca repubblicana, l’hanno declinata come hard power, i democratici, da Obama a Biden, come soft power. Ma sempre eccezionalistico power è: e cioè la pretesa dei nuovi venuti – perché sono nuovi venuti rispetto alla storia millenaria di altri popoli – di dettare al mondo il nomos della terra. La conseguenza di questo è l’attuale disordine mondiale, che offre il seguente scenario: una costituzione formale che vorrebbe l’approdo a un multilateralismo e una costituzione materiale che impone, attraverso la confrontation USA-Cina, un nuovo scontro di civiltà Occidente-Oriente. Allora, uno sguardo realisticamente disincantato vede che la cosa più facile è invocare a parole la pace, la cosa più difficile è con la politica mantenere fredda la guerra. Per il resto, mi viene da ricordare una straordinaria pagina di Lukàcs, nella Prefazione del 1962 a Teoria del romanzo, un’opera scritta nell’inverno 1914-15, eccola: «Siccome in quel periodo tentavo di portare a livello di consapevolezza la mia presa di posizione emozionale, ero giunto alla seguente conclusione: gli imperi centrali probabilmente sconfiggeranno la Russia, cosa che può portare al crollo dello zarismo e mi va benissimo. Sussiste la possibilità che l’Occidente vinca la Germania, e questo comporta il tramonto degli Hohenzollern e degli Asburgo e mi va benissimo lo stesso. Ma a questo punto, ecco l’interrogativo: chi ci salverà dalla civiltà occidentale?». Da rigirare questa pagina all’oggi. E intenda chi vuole intendere… Riflettendoci su, mi viene solo da osservare: quella domanda impertinente che si poteva così liberamente fare agli inizi dell’oscuro Novecento, si potrebbe altrettanto liberamente fare agli inizi di questo illuminato 2000, senza farsi crocifiggere?

 

Il presente della politica italiana ha il volto di donna: al governo, Giorgia Meloni, e ora all’opposizione, Elly Schlein. Un passaggio epocale?

Lasciamo stare l’epocale. Sono delle novitates. Ma su questo inseguimento elettorale di massa delle ultime novità che offre il mercato politico, sarebbe ora di fare un discorso più approfondito. Ne va del destino dei luoghi di rappresentanza e di decisione, partiti, Parlamento, governo, sottoposti a provvisorietà, volatilità, e quindi poco seria lunga operatività. Su Elly Schlein mi sono proposto di sospendere il giudizio. Sono incuriosito. Ma voglio vedere il passaggio dalle parole-slogan ai fatti dalla testa dura. Nell’immediato è un fatto positivo. Spezza una continuità al ribasso di un Pd che, richiamando le espressioni di Letta all’inizio del suo mandato, magari ha saputo usare anche bene il cacciavite, ma l’anima, quella, non l’aveva mai trovata. Fa bene Schlein ad andare subito all’attacco di questo governo di destra. Ma l’attacco va esteso all’attuale assetto di questa formazione economica sociale, quotidiana fabbrica produttiva di diseguaglianze, di emarginazioni, di discriminazioni, di sfruttamento, tutte realtà ben nascoste dietro la vetrina luccicante del migliore dei mondi possibili. L’anima la ritrovi lì, nel conflitto sociale, mano nella mano tra partito e sindacato. La condizione del pluriverso dei lavori non è una delle emergenze e urgenze cui riservare attenzione nelle iniziative, è il centro pulsante della lotta politica, intorno al quale tutto il resto deve ruotare.

 

C’è chi ha letto la vittoria di Schlein, così come l’affermarsi nel campo opposto di Meloni, come una risposta al bisogno di identità. Identità è sinonimo di testimonianza? Di una purezza che non fa i conti con il governo della complessità?

Il bisogno di identità è tornato e sia il benvenuto. Sapere chi si è, che cosa si vuole fare, dove si vuole andare, è il presupposto di una buona vita in politica. Destra e sinistra si stanno autonomamente ridisegnando, dopo almeno tre decenni di confuse aggregazioni di centrosinistra, di centrodestra. È un bene. Ed è forse solo per questa via che si potrà richiamare a una presenza elettorale quella notevole parte di popolo che se n’è assentata. La chiarezza è una risorsa pubblica. L’identità entra necessariamente in contrasto con l’assunzione della complessità, come ha sostenuto sul vostro giornale un osservatore intelligente come Sergio Fabbrini? Dipende. E dipende soprattutto da una cosa: dalla qualità delle classi dirigenti, dell’una e dell’altra parte. Dipende dal “saper fare” politica. E qui oggi è il punto di problema. Vanno risolidificate le fondamenta di sistema. Occorre risanare la politica, dopo la grave, gravissima, malattia che ha subìto con il populismo antipolitico, un virus che ha aggredito il corpo sociale e ancora non è debellato. La politica è diventata liquida come la società di Bauman. Non si può più tollerare. Invertire questa tendenza è il primo passo. Di qui, riqualificare i gruppi dirigenti dei partiti, ritrovare rigorosi canali di selezione per il Parlamento, coltivare una cultura di governo anche quando si sta all’opposizione. Il problema non è ringiovanire, il problema è maturare. Uomo politico o donna politica, quello resta il compito.


Articolo pubblicato su “Il Riformista” del 21.03.2023.

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