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tropicodelcancro

Letteratura e insicurezza. Sul caso Agatha Christie

di Gianluca Viola

La notizia è ormai sulla bocca di tutti: il rinomato editore HarperCollins, nell’ottica di una ristampa delle opere complete della signora del giallo, ha deciso di avvalersi del contributo dei cosiddetti sensitive readers, allo scopo di correggere, modificare e censurare passaggi dei romanzi dell’autrice di Miss Marple, per adattarli alla «sensibilità moderna», qualsiasi cosa essa sia. L’operazione ha causato – e c’era da aspettarselo – un turbine di polemiche, come era già avvenuto, nel recente passato, quando la stessa volontà s’era abbattuta sulla penna dello scrittore per ragazzi Roald Dahl o sul creatore di James Bond, Ian Fleming.

L’ipotesi – divenuta realtà nei due casi precedenti – di attuare una revisione linguistica dei brani e delle espressioni ritenute - a giusto titolo oppure no – discriminatorie nei confronti dell’infinita sensibilità delle cosiddette minoranze – i cui rappresentanti fanno ormai della suscettibilità la loro cifra stilistica essenziale – è semplicemente un altro segno dei «tempi interessanti» in cui siamo immersi o cela un significato più profondo, legato alle modalità con cui ci approcciamo – o, almeno, alcuni di noi si approcciano – alla produzione letteraria dei secoli appena precedenti?

Ha senso istituire una commissione di lettori sensibili per sostituire riferimenti etnici o descrizioni fisiche che potrebbero far storcere il naso con innocue formule più alla portata di un pubblico che passa al setaccio intere biblioteche col solo fine di biasimare i pregiudizi di scrittori e scrittrici inevitabilmente figli del loro tempo?

Tutti abbiamo riso – e di gusto – quando saltò fuori l’idea secondo cui Dante potesse essere tacciato di islamofobia e antisemitismo, per alcuni passaggi della Commedia. Un gruppo di ricercatori evidentemente illuminati, qualche anno fa, ha insistito sull’intollerabile pena cui sarebbero stati sottoposti – e lo sono tuttora, del resto – così tanti giovani, costretti senza filtri e spiegazioni del caso a studiare un’opera così lontana dalla benedetta ed infallibile «sensibilità moderna», un’opera così ricca di pregiudizi e destinata ad alimentarne di ulteriori. Abbiamo riso di meno, però, quando il regista Leo Muscato ha proposto una versione della Carmen riscritta nel finale, in nome dell’inopportunità di «applaudire all’omicidio di una donna» in un’epoca in cui si fanno così tante giuste battaglie contro il femminicidio e per sensibilizzare la coscienza collettiva riguardo a questo crimine.

Con buona pace di Bizet e Mérimée, la «sensibilità moderna» preferisce che sia Carmen ad uccidere Don Josè, e non il contrario. Interessante provocazione, gesto artistico di denuncia o semplice conformismo? Alla prima fiorentina della Carmen revisionata, l’effetto comico si ebbe lo stesso: la pistola con la quale Carmen avrebbe dovuto compiere la sua “vendetta”, dopo centinaia di rappresentazioni che l’avevano vista soccombere, si è clamorosamente inceppata, causando non poche ironie. Gustave Thibon ha sostenuto che vi è un conformismo della rivoluzione, così come vi è un conformismo dell’ordine stabilito e Dio solo sa quale dei due sia effettivamente peggiore. È giusto sottoporre opere artistiche o letterarie così rilevanti alle singole egemonie culturali manifestatesi a seconda dell’epoca di riferimento? Il semplice fatto che si discuta di ciò, credo, ci dà più di un indizio sul nostro attuale rapporto con la letteratura.

Ciò che bisogna attendersi dalla letteratura – ma ciò può valere per ogni forma d’arte – è la remise en cause del nostro rapporto con noi stessi, con il mondo e con gli altri. Ciò è particolarmente vero non appena ci confrontiamo con le opere più estreme, più scandalose e perturbanti. Penso, in questo caso, all’Histoire de l’Œil o alla Lolita di Nabokov, giusto per dare qualche esempio. Al contrario – e le polemiche degli ultimi anni soprattutto intorno a quest’ultima opera ne testimoniano certamente – sembra piuttosto che il nostro rapporto con la letteratura sia stato ugualmente investito dalla struttura individualistica tipica della nostra società ed ormai pericolosamente interiorizzata.

Tutto ciò che domandiamo alla letteratura oggi è, al massimo, di psicoanalizzarci - permetterci, una volta terminata l’ultima frase e chiuso dunque il volume, di pronunciare: «Questo mi riguarda!». Si tratta, a mio avviso, di un vero impoverimento: la letteratura, che è sempre l’esperienza degli altri, non può essere vissuta sotto il primato del Medesimo, secondo una tensione verso il riconoscimento del sé – di un sedicente sé – nell’esperienza degli altri; ciò conduce, d’altronde, al rigetto – che talvolta assume un carattere, appunto, di censura – delle esperienze più terribili e più vergognose, rifiutate rigorosamente per le più svariate ragioni personali, politiche, etc. Sarà più facile, a questo punto, veder sparire queste opere, semplicemente perché avvertiamo che esse non ci appartengono o, ancor più stupidamente, perché non riteniamo giusto ciò che in esse viene espresso. Dal momento in cui mi approccio a un’opera, qualunque essa sia, per trovarvi una conferma della mia esistenza particolare e della mia modalità di approcciare il rapporto con il mondo e con gli altri, sono costretto a rifuggire tutto ciò che, invece, mi getta al di fuori di me, specialmente qualora si tratti di quelle esperienze, per così dire, più abiette; da qui, una delle motivazioni della crisi della letteratura contemporanea.

D’altra parte, la letteratura in quanto esperienza – e precisamente in virtù del fatto che essa è e resta un’esperienza – implica sempre un oltrepassamento di me: essa deve essere davvero il luogo nel quale io non mi riconosco più, il luogo in cui la mia chiusura individuale è improvvisamente in gioco per essere radicalmente contestata. Ogni riga, ogni passaggio, ogni dialogo, ogni descrizione risuona risolutamente: non io, Altro. Ritrovare questo genere di rapporto alla letteratura potrebbe essere il primo passo, insufficiente ma necessario, per uscire fuori dalla prigione dell’identico e per entrare in relazione con una qualche forma d’alterità. Fin tanto che, però, ciò non avviene, saremo costretti, per ossequio alla contemporaneità, ad osservare la sostituzione del termine “nativo” con “persona originaria del luogo”.

Resta da vedere in che modo i sensitive readers potrebbero porsi nei confronti del già citato Lolita: quale termine, adatto alla «sensibilità moderna», da sostituire a nymphet – indubbiamente oltraggioso, giacché rivolto essenzialmente a una donna poco più che bambina? Non voglio nemmeno lontanamente immaginare quale potrebbe, poi, essere il trattamento riservato a un Bataille oppure a un Marchese de Sade, per quanto sarebbe indubbiamente divertente assistere agli espedienti creativi che, presto o tardi, le case editrici potrebbero adottare, per sopperire ad indecenze così tanto spinte verso l’estremo.

Qui, però, il sarcasmo e l’ironia finiscono: la letteratura non è, né sarà mai, un safe space; o, meglio, non lo sarà mai l’ottima letteratura. Solo la pessima letteratura s’arrende al carattere edificante e si piega all’esigenza di sicurezza di uomini e donne che rifiutano il piacere dello scandalo. In una nota intervista, l’ultima, Pier Paolo Pasolini – Ragazzi di vita, presumibilmente, non si legge più, altrimenti sarebbe anch’esso, credo, sotto i riflettori da questo punto di vista –, come molti ricordano, affermò: «Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. E chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista».

L’ottima letteratura, come la vita, è impermeabile, refrattaria alla morale; così come la vita, la letteratura è quello che è, non quello che dovrebbe essere. I lettori di Agatha Christie hanno giustamente protestato contro questa iniziativa; molti quotidiani o periodici italiani e stranieri hanno fatto lo stesso, talvolta facendo ricorso alla vecchia pratica, ormai desueta, dell’indignazione. Molti hanno fatto riferimento all’ormai scontato «politicamente corretto». Non insisterei su questo punto: questo concetto si presta ai più disparati utilizzi, non esclusi i più reazionari. Non è di correttezza politica che qui si tratta, ma di un sempre più crescente bisogno di sicurezza, di un sempre più inquietante desiderio di conferme, di un sempre più disperante tentativo di piegare lo status quo alle proprie pur legittime istanze politico-sociali, intervenendo a posteriori su ciò che potrebbe turbarle.

Revisionismo storico-letterario? Forse. Il senso profondo della letteratura rimane, però, sempre e solo la rivolta, non il quietismo né la pacificazione. È vero che essa, da sempre, è un favorevole terreno di battaglia: ma ciò varrà finché essa rimarrà il luogo dell’insicurezza e ci offrirà, nella giusta misura, l’assist per ridefinire il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo. Ciò che queste operazioni tentano è, invece, l’opposto: ridefinire la letteratura a partire dai nostri rapporti attuali con noi stessi, con il mondo, con gli altri. Finché queste pratiche non diverranno maggioritarie e all’ordine del giorno, però, apriamo ancora una volta il Voyage au bout de la nuit e lasciamoci scandalizzare felicemente dall’intollerabile, magnifica, penna del più eretico tra gli eretici, l’odioso antisemita, la canaglia, - eppure, che grande scrittore! - Louis-Ferdinand Céline. E i sensitive readers, di questo romanzo, che cosa ne pensano?

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